- Dopo il successo della raccolta firme per chiedere un referendum sull’eutanasia legale, la partita più difficile si sposta nelle commissioni della Camera, dove tra veti ed emendamenti, si teme l’ostruzionismo di alcuni partiti, come già avvenuto con il ddl Zan.
- La posizione ufficiale della chiesa italiana è unanime. Dopo la sentenza della Consulta 242/2019, i vescovi hanno chiesto l’intervento della politica per arginare una «cultura della morte» agli antipodi di quel «diritto alla vita di ogni essere umano dal concepimento alla morte».
- All’interno della stessa chiesa, però, non tutti si allineano alla Cei. Una voce dissonante è quella di don Ettore Cannavera, cappellano alla Rems di Capoterra, o di Mina Welby, co-presidente dell’Associazione Luca Coscioni e cattolica praticante: «Ho scritto a papa Francesco, non ho mai ricevuto risposta».
Dopo la deposizione in Cassazione delle firme per un referendum sull’eutanasia legale che prevede di abrogare parzialmente l’articolo 579 del codice penale, promosso dall’associazione Luca Coscioni e altre realtà associative, la partita si sposta ora nelle commissioni della Camera convocate oggi, dove è plausibile che si presenti l’ostruzionismo di alcuni partiti, come già avvenuto con l’affossamento del ddl Zan contro l’omobitransfobia.
Che l’intesa per una legge sull’eutanasia in Italia sia difficile lo mostrano i 398 emendamenti, presentati in larga parte dalla Lega e dal blocco centrista. Tra i nodi più difficili da sciogliere, restano l’obiezione di coscienza e i criteri di accesso al suicidio assistito: elementi anzitempo sollevati dalla chiesa cattolica italiana, che sul fine vita procede a ranghi serrati, almeno dal punto di vista istituzionale.
Subito dopo il pronunciamento della Corte costituzionale, che due anni fa ha assolto Marco Cappato dall’accusa di aiuto al suicidio di Antonio Fabiani (dj Fabo), malato tetraplegico che si lasciò morire in una clinica svizzera, i vescovi italiani hanno invitato a «respingere la tentazione di usare la medicina per assecondare una possibile volontà di morte del malato, fornendo assistenza al suicidio o causandone direttamente la morte con l’eutanasia».
Quello della Cei era un riferimento alla sentenza 242 del 2019 che, assolvendo Cappato, ammetteva l’aiuto al suicidio medicalmente assistito solo se operato da un medico in modo indiretto e a talune condizioni. Da allora i vescovi italiani hanno chiesto al mondo politico di intervenire per arginare quella che è stata chiamata la «cultura della morte».
Per Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia accademia per la Vita, il problema non è disporre o meno della vita, ma viverla in modo sensato: «La plurisecolare tradizione della chiesa ha sempre tenuto in grande considerazione offrire la vita donandola agli altri.
Per i credenti ciascun essere umano è affidato alla sua responsabilità, all’interno della comunità sociale in cui vive», dice l’arcivescovo, che così commenta i numeri dei firmatari desiderosi del referendum abrogativo: «Il messaggio della raccolta delle firme è stato percepito più come una richiesta di non soffrire che come un’apertura alla possibilità di uccidere chi è consenziente.
È, quindi, passata una sorta di equazione tra l’eliminazione della sofferenza e quella del sofferente, ma le due cose non sono equivalenti».
La chiesa dissidente
All’interno della stessa chiesa, però, non tutti sono allineati alla posizione della Cei. Una voce dissonante è quella di don Ettore Cannavera, cappellano alla Rems di Capoterra, ex sacerdote in un carcere minorile: «Nella mia vita ho conosciuto due tipi di morenti: chi è morto disperato e chi in pace. Spesso tra i secondi ci sono persone che chiedono la possibilità di lasciare questo mondo in serenità», dice.
Per il cappellano, la domanda di partenza è filosofica anziché politica: «Se la scienza mi accerta che una vita non è più recuperabile, perché devo far vivere a un essere umano l’inferno sulla Terra? Bisogna superare questo atteggiamento negativo del cristianesimo». Per le sue posizioni pro eutanasia, don Cannavera è stato richiamato dal vescovo dell’arcidiocesi di Cagliari, Giuseppe Baturi, per un chiarimento: «Gli ho assicurato che predico sempre la difesa della vita, ma anche la libertà delle proprie scelte, e lo ha accettato.
In fondo, Cristo stesso ci insegna che la fedeltà alle proprie idee si paga con la vita». Il sacerdote sardo è tra i pochi noti per affrontare l’eutanasia in controtendenza rispetto alla linea della Santa sede: «Ma ci sono tanti sacerdoti che sono d’accordo con me, solo che non possono esporsi pubblicamente», ammette.
Il silenzio del papa su Welby
La coesistenza di posizioni opposte tra i ministri cattolici è un segno della complessità della questione, e ricorda quanto avvenne alla morte di Piergiorgio Welby nel 2006: «Poco dopo la scomparsa di mio marito, mi è stato riferito che il Vicariato aveva diramato l’ordine di sospendere i suoi funerali.
Però, mi hanno scritto don Andrea Gallo, don Paolo Farinella, don Antonio Mazzi e tanti altri sacerdoti. Non dimentico, infine, la lettera del cardinale Carlo Maria Martini», dice Mina Welby, co-presidente dell’associazione Luca Coscioni. Quando il 20 dicembre 2006 Piergiorgio Welby ha vinto la sua battaglia per l’interruzione della ventilazione assistita, che di lì a poco gli avrebbe provocato la morte, le campane della chiesa di san Giovanni Bosco – la stessa che nove anni dopo sarebbe diventata la quinta teatrale del “funerale show” del boss Vittorio Casamonica – hanno taciuto.
È stato un colpo per la moglie Mina, cattolica praticante: «Piergiorgio non ha ricevuto l’eutanasia, ma fu interrotta la ventilazione assistita che a lui provocava sofferenza, peraltro seguendo l’articolo 2278 del Catechismo cattolico, che accetta l’interruzione di procedure mediche sproporzionate rispetto ai risultati attesi», spiega.
Da allora, Mina Welby ha fatto sua la lotta del marito perché a tutti i cittadini, credenti e non, sia data la possibilità di disporre della propria fine: «Non si tratta, come spesso viene detto, di portare avanti una cultura di morte, ma di interrompere una vita che mette la sofferenza al primo posto perché si pensa che il dolore nobiliti la persona, quando non è così».
Le cure palliative
Anche alla chiesa guidata da papa Francesco, Mina Welby non risparmia il biasimo. La lettera della Congregazione per la dottrina della fede Samaritanus bonus, pubblicata un anno fa, che ritorna sulla cura delle persone nelle fasi terminali della loro vita, evita un confronto diretto con il pensiero laico, né approfondisce il tema dell’obiezione di coscienza: «Ho anche scritto a papa Francesco, chiedendogli se avesse celebrato una messa per Piergiorgio o se avesse riflettuto su quel funerale negato. Non ho mai ricevuto una risposta».
Il tema delle cure palliative come soluzione a una scelta radicale è molto acceso nella chiesa d’Oltralpe. Padre Gabriele Ringlet, teologo e già vicerettore dell’Università Cattolica di Lovanio, esperto di fine vita, è perplesso: «Anche quando le cure palliative sono di alta qualità, restano situazioni di estremo dolore, fisico o morale, che non permettono di sfuggire all’eutanasia».
In questi casi, la chiesa ammette la sedazione, cioè l’abbassamento farmacologico dello stato di vigilanza di un malato per ridurre la percezione di un dolore insopportabile: «Ho spiegato a diversi vescovi che la sedazione è grave quanto l’eutanasia e che pone volontariamente fine alla vita di qualcuno.
L’unica differenza sta nella durata, ma eticamente le due scelte sono molto vicine», puntualizza il teologo, radicalizzando una posizione già accennata nel documento sulle cure palliative nell’Ue redatto dalla Commissione degli episcopati della Comunità europea (Comece) il 22 febbraio 2016. Sono proprio i testi redatti dalla chiesa negli ultimi anni a non chiarire su quanto il diritto sta cercando di normare nei vari paesi.
Nella sua esperienza di accompagnamento a malati terminali, padre Ringlet fa riferimento al caso dell’eutanasia richiesta da un’anziana suora carmelitana: «Quando mi chiese di poter morire, era piegata in due dal dolore e pregava che la sua agonia finisse.
Le ho assicurato che avremmo rispettato la sua richiesta e ricordo che mi espresse un’immensa gratitudine. In questo e altri casi ho sperimentato il bisogno di mettersi in ascolto dell’altro e accogliere la fine in modo aperto».
© Riproduzione riservata