L’elezione dal Quirinale è davvero il più grande gioco della repubblica. Si tratta di una partita a scacchi con regole proprie, scritte e non scritte. Ogni elezione è diversa e nei settant’anni di storia l’aula di Montecitorio ha visto andare in scena scontri, tradimenti e vittorie inaspettate.
L’elezione dal Quirinale è davvero il più grande gioco della repubblica. Si tratta di una partita a scacchi con regole proprie, scritte e non scritte. Ogni elezione è diversa e nei settant’anni di storia l’aula di Montecitorio ha visto andare in scena scontri, tradimenti e vittorie inaspettate, che Domani ha raccolto nel podcast “Il grande gioco del Quirinale”.
Se esiste però un principio generale, che vale per tutti i presidenti, è quello enunciato da uno dei grandi sconfitti. Diceva l’ex leader della Democrazia cristiana Giulio Andreotti che «non c’è nessun metodo che garantisca la vittoria, ci sono solo errori da non commettere».
Le regole
A eleggere il capo dello Stato è un’assemblea strana, composta da deputati, senatori e delegati regionali, che si riunisce in questa forma solo una volta ogni sette anni. Proprio sette anni di durata del mandato presidenziale sono un altro elemento peculiare: il presidente della repubblica, nelle cui mani giura il governo, rimane in carica per un tempo che la costituzione prevede solo per questo ruolo. Sette anni sono poco meno di una legislatura e mezzo, quindi il tempo per nominare almeno due governi.
Proprio questo genera una doppia asimmetria: un’assemblea più numerosa rispetto alla semplice somma delle due camere e un mandato presidenziale ben più lungo di quello dei parlamentari, rende l’elezione un unicum politico.
A rendere il voto una partita a carte coperte, però, sono le tre caratteristiche peculiari della seduta: non è previsto dibattito d’aula; non esiste la presentazione formale di una candidatura; il voto è segreto.
Proprio questi tre elementi creano l’amalgama per far emergere l’antagonista naturale di ogni aspirante presidente: i franchi tiratori.
Quando entrano in azione, non votando nel segreto dell’urna il nome scelto dal loro gruppo, la conseguenza è una sola: il disastro per il partito e in particolare per il segretario che doveva tenere insieme il gruppo.
Il caso più recente e più eclatante, che ha fatto esplodere le contraddizioni interne al Partito democratico, è quello dei 101 franchi tiratori che hanno stroncato la candidatura di Romano Prodi.
Esistono però dei modi per scongiurare i franchi tiratori e aggirare il principio del voto segreto e anche il trucco viene dalla prima repubblica. Se esiste una coalizione a sostegno di un candidato, ogni partito deve indicarlo sulla scheda in modo diverso: solo col cognome, oppure con il cognome prima del nome, oppure ancora con la carica che riveste. In questo modo si può verificare chi ha tradito. Contro questo sistema, però, può intervenire il presidente della Camera, che non è tenuto a leggere esattamente quel che c’è scritto sulla scheda ma può limitarsi al nome votato.
I metodi Cossiga e Leone
Se i franchi tiratori non giocano brutti scherzi e i gruppi rimangono compatti, esistono due metodi per eleggere un presidente della
repubblica. Il “metodo Cossiga”, prevede un’elezione lampo alla prima votazione. Nel caso di Francesco Cossiga, nel 1985, con 752 voti, pari al 75 per cento e quindi ben oltre i due terzi richiesti.
L’alternativa, invece, è quella del “metodo Leone”, fatto di lunghe votazioni logoranti ed elezione a maggioranza ma senza il voto di tutti.
In quel 1971, le votazioni erano iniziate il 9 dicembre e sono andate avanti per ventitrè volte. Finchè nella notte della vigilia di natale è stato eletto il democristiano Giovanni Leone, con appena 518 voti, poco più del 51 per cento dell’aula. La sua è stata una elezione particolare anche per altre ragioni. A lungo presidente della Camera, Leone era considerato un uomo di mediazione: avvocato napoletano e membro dell’assemblea costituente, democristiano sì ma un democristiano anomalo perché non era un esponente delle fortissime correnti Dc. Tanto è vero che in quel 1971 non era lui il candidato ufficiale della Dc, ma era il segretario dei partito Arnaldo Forlani, che era anche presidente del Senato. Entrarono però in azione i franchi tiratori che fecero mancare più di cinquanta voti Dc.
Le dimissioni
Entrambi i mandati, sia di Cossiga che di Leone, si chiusero nel peggiore dei modi: con le dimissioni.
Leone si dimette il 15 giugno 1978, a causa della pressione dei partiti politici, dopo una durissima campagna stampa contro di lui, iniziata nel 1976. All’origine c’è il cosiddetto scandalo Lockheed. La Lockheed è un’azienda aeronautica militare americana che aveva corrotto i leader di vari paesi occidentali per vendere i suoi velivoli.
In Italia, i documenti riservati indicano il politico da corrompere era indicato con il nome in codice di Antelope Cobbler. I sospetti cadono immediatamente sui vertici della Dc: Giulio Andreotti, Aldo Moro,
Mariano Rumor e appunto Giovanni Leone.
L’attacco più pesante al presidente è contenuto in un libro, pubblicato nel 1976 dalla giornalista Camilla Cederna. Il titolo è “Giovanni Leone, La carriera di un presidente” che getta ombre su tutta la famiglia e lo accusa di essere Antelope Cobbler. Leone intende rispondere e vorrebbe dimettersi subito, ma viene convinto da Moro a non farlo e a non rispondere.
Fino al 1978: è in corso una commissione d’inchiesta, la campagna stampa del settimanale L’Espresso continua, Moro non c’è più perchè è stato ucciso dalle Brigate rosse nello stesso anno e aumentano gli attacchi anche da parte dei partiti politici. E’ così che Leone annuncia le sue dimissioni: pochi mesi dopo, viene definitivamente scagionato da ogni sospetto. La commissione d’inchiesta individua e punisce alcuni alti militari e un ex ministro della difesa viene. condannato per corruzione.
I familiari dell’ex presidente intentano una causa contro Feltrinelli che aveva pubblicato il libro di Cederna. Ottengono un risarcimento e il sequestro e distruzione di tutte le copie residue del libro.
Se Leone si è dimesso a causa degli attacchi ai partiti, Cossiga si è dimesso in polemica con i partiti. Nei primi cinque anni svolge il mandato in modo tradizionale mentre cambia completamente approccio nella seconda fase, che viene fatta coincidere con la caduta del muro di Berlino.
E’ in questa seconda fase che Cossiga si trasforma nel “picconatore”. Fa esternazioni contro i leader politici del tempo, chiede riforme costituzionali e abbandona ogni formalismo. Fino alla decisione definitiva nel 1992. In quello stesso anno le elezioni politiche vedono il successo inatteso della Lega Nord e il crollo della Dc e del Pds di Achille Occhetto, fondato dopo lo scioglimento del Pci. Sta per esplodere lo scandalo di Tangentopoli. E Cossiga si dimette, senza preavvertire nessuno se non il presidente della Camera, ma solo in diretta televisiva.
Oltre a Leone e Cossiga, nel 1964 si dimise anche Antonio Segni, eletto presidente appena due anni prima ma colpito da un ictus. Il quarto presidente dimissionario è anche l’unico che è stato anche rieletto: Giorgio Mattarella, che ha interrotto il suo secondo mandato dopo due anni per ragioni d’età e di stanchezza fisica.
Le maledizioni
“Nano maledetto, non verrai mai eletto”, c’era scritto su una delle tante schede nulle votate dai grandi elettori durante le 23 votazioni dell’elezione al quirinale, nel 1971.
Il nano maledetto si riferisce Amintore Fanfani. Basso di statura, il segretario della Dc e presidente del Senato era candidato ufficiale del suo partito al Colle. Durante lo scrutinio era seduto accanto al presidente della Camera, Sandro Pertini e fece in tempo a leggere la scheda. Quel distico perfido sarebbe stato scritto da uno dei franchi tiratori democristiani, che impedirono a tutti i segretari del partito di salire al Colle. Fanfani ci provò nel 1964 e nelle tre votazioni successive, sempre senza successo. La stessa fine tocca anche a Giulio Andreotti e Arnaldo Forlani, entrambi candidati – il primo ufficioso, il secondo ufficiale – della Dc. Forlani cadde per colpa dei franchi tiratori, Andreotti non arrivò nemmeno nell’urna, perchè sul voto si abbattè la tragedia della strage di Capaci che uccise Giuseppe Falcone e la sua scorta. Si virò sul nome istituzionale, allora, e al sedicesimo scrutinio venne eletto il presidente della Camera democristiano, Oscar Luigi Scalfaro.
La stessa maledizione, però, ha riguardato anche le donne. Mai nessuna è stata eletta ma proprio nel 1992 dell’elezione di Scalfaro si va più vicini.
Quella donna è Leonilde Iotti, detta Nilde, la prima donna e la più longeva presidente della Camera per tre legislature e la prima a ottenere il mandato esplorativo per costituire un governo. Glielo assegna nel 1987 il presidente della Repubblica Francesco Cossiga e fa di lei la prima esponente del partito comunista ad arrivare vicino alla presidenza del consiglio. Nel quarto scrutinio ottenne 256 voti, ancora oggi il più alto numero di consensi ottenuti da una donna nel collegio elettorale, ma non era lei la candidata ufficiale del Pci, che aveva scelto Giorgio Amendola. Dopo di lei, nessuna donna è arrivata così in alto nel cursus delle cariche istituzionali, né così vicina alla presidenza della repubblica. Chissà per quanto ancora il suo primato rimarrà ineguagliato.
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