Sull’agenda del Quirinale martedì 22 era segnato un impegno: alle 18 e 30 il presidente della Repubblica era atteso alla proiezione del film C’è ancora domani di Paola Cortellesi, in occasione dell’80esimo anniversario dell’Anica, l’associazione dell’industria dell’audiovisivo. Quell’orario era per palazzo Chigi una prima “dead line”, un primo termine per la consegna del testo del decreto varato lunedì sera dal Consiglio dei ministri per “rimediare” – nelle intenzioni – alla figuraccia albanese, quella dei 12 migranti trasportati nei Cpr e poi “non trattenuti” dal tribunale di Roma. Dal Colle era filtrato che il presidente aveva tutta l’intenzione di esaminare il testo rapidamente, e anche la disposizione a firmarlo, ma il presidente deve essere messo in condizioni di svolgere il suo lavoro.

Alle sei del pomeriggio il decreto non era arrivato. Da palazzo Chigi spiegavano che era ancora in fase di «bollinatura». Da una parte c’è fretta. Dall’altra invece l’esigenza è un’altra: sfiammare l’incendio fra maggioranza e magistrati, rallentare lo scontro istituzionale, evitare che i toni salgano ancora. Mission impossible: le micce sono state accese, e non accennano a spegnersi.

Il decreto fantasma

I componenti togati del Consiglio superiore della magistratura, tutti tranne quelli della corrente di destra Magistratura indipendente, hanno depositato la richiesta di apertura di una pratica a tutela dei magistrati, dopo gli attacchi ai giudici della sezione immigrazione del tribunale di Roma. Alla Camera le opposizioni hanno chiesto alla premier Meloni un’informativa urgente sul «decreto fantasma»: ancora nel pomeriggio il testo non c’era. «Venga in aula a spiegare cosa sta scritto in quel decreto, cosa può aggiungere al diritto europeo che è chiaro e vi dice che non si possono rimpatriare persone se i paesi non sono sicuri in tutte le loro parti», è la richiesta della capogruppo Pd Chiara Braga, a cui si sono aggiunti M5s e Avs. L’assunto delle opposizioni, ma anche dei giuristi, è che una legge, cioè una norma «primaria» e non secondaria come il precedente decreto interministeriale, non cambia il fatto che le norme europee prevalgono su quelle nazionali. Dunque, è la domanda, a che serve il decreto?

Le tensioni con l’Europa

La cosa che più preoccupa il Colle è che questa vicenda non si traduca in inutili tensioni con l’Europa. Proprio martedì è saltato fuori un rapporto della commissione antirazzismo del Consiglio d’Europa che accusa le nostre forze dell’ordine di «profilazione razziale». Meloni ha risposto con durezza dai social: «Le nostre forze dell’ordine lavorano con dedizione e abnegazione per garantire la sicurezza di tutti i cittadini, senza distinzioni. Meritano rispetto, non simili ingiurie». Qui il tema è un altro. Ma al fondo del conflitto di oggi fra governo e magistratura c’è che l’esecutivo italiano maltollera le regole europee.

Così il Colle ha cercato di persuadere palazzo Chigi a non scrivere nero su bianco una legge che confliggesse con le norme dell’Unione. Fra lunedì e martedì i consiglieri del governo sono stati accompagnati verso un testo che non costringesse il capo dello Stato a far mancare la sua firma. Atto a cui Mattarella non deve essere costretto. C’è il requisito di necessità e urgenza che andrebbe rispettato quando si fa ricorso a un decreto; fatto che al Colle viene di nuovo sottolineato. C’è stato il ventilato inserimento di una norma che consenta al governo di ricorrere, contro le decisioni dei giudici, in appello prima della Cassazione (a cui peraltro il Viminale ha fatto ricorso contro quella del tribunale di Roma). Il governo cercava un’occasione in più per contestare le sentenze di primo grado, nel merito, oltre al ricorso di legittimità. Questo, secondo molti giuristi, non pone un problema di costituzionalità del testo, ma dell’ingorgo delle Corti d’Appello. Tema che il presidente del Csm non può non tenere presente.

Un testo scarno

Nel tardo pomeriggio, quando il presidente ha lasciato il palazzo, il testo non era arrivato. Ma da palazzo Chigi l’intenzione era quella di inviarlo in serata, per permetterne un rapido esame. E una rapida firma. A patto che, filtra dal Colle, fosse quello «scarno» testo, nella sostanza quello approvato dal Consiglio dei ministri. Un titolo, “Disposizioni urgenti in materia di procedure per il riconoscimento della protezione internazionale”, e una prosa ridotta all’osso, con l’elenco dei «paesi di origine sicuri» (Albania, Algeria, Bangladesh, Bosnia-Erzegovina, Capo Verde, Costa d’Avorio, Egitto, Gambia, Georgia, Ghana, Kosovo, Macedonia del Nord, Marocco, Montenegro, Perù, Senegal, Serbia, Sri Lanka e Tunisia»). Niente di strano se il legislatore italiano adotta questo elenco con un decreto. Niente che però intacca il principio consolidato del rapporto fra diritto interno e diritto dell’Unione. E il fatto che sta al giudice, lo dice la sentenza della Corte di giustizia europea, verificare la corrispondenza fra un paese sicuro «per legge» e il paese reale da cui si è scappati.

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