La maggioranza ha in serbo un’altra riforma costituzionale, quella per modificare il Titolo IV della Costituzione, che regola i principi della magistratura e il sistema della garanzie? L’assunto ha bisogno di un punto interrogativo anche se è, in effetti, la proposta che fa Ignazio La Russa in un’intervista a Repubblica, nelle ore dello scontro fra esecutivo e magistrati.

Aggiungendo legna al fuoco delle polemiche sulla sentenza del tribunale di Roma che non ha convalidato il trattenimento dei 12 migranti trasportati nei centri italiani in Albania. Se prese letteralmente, le parole del presidente del Senato sarebbero quasi una bomba. Le prende sul serio la segretaria del Pd Elly Schlein, che gli replica da Rai 3.

«Apprendiamo», dice, che il governo vuole «rimettere mano alla Costituzione per cancellare il principio di separazione dei poteri. È grave che a dirlo sia addirittura il presidente del Senato».

Dimenticare Montesquieu

La Russa dice: «A chi spetta definire esattamente i ruoli della politica e della giustizia? Alla Carta costituzionale. In passato tutto sembrava funzionare. Dopo Tangentopoli non è più stato così. Ci sono magistrati che vanno oltre, dando la sensazione di agire con motivazioni politiche. E ci sono d’altro canto politici che hanno il dente avvelenato con i giudici. Se la Costituzione non appare sufficientemente chiara, si può chiarire meglio».

Ad attenuare l’impatto delle parole c’è però che ha l’aria di essere un contributo, sebbene di autorevolissima fonte, alla confusione generale e al probabile tentativo della destra di alzare i toni su un tema identitario, la lotta contro la magistratura, per chiamare alle urne liguri i propri svogliati elettori. Difficile che la premier Giorgia Meloni non abbia condiviso in anticipo le parole del presidente, anche se da palazzo Madama viene replicato un retorico «e perché mai il presidente avrebbe dovuto informare la premier?».

Formalmente infatti non c’è ragione. Politicamente sì: perché in questi due anni di governo Meloni il presidente è stato l’uomo delle istituzioni che, indossando la giacca di uomo di partito, ciclicamente ha spinto più avanti l’asticella dei progetti della premier. Come nel dicembre di un anno fa, quando ammise quello che fin lì la maggioranza aveva smentito, e cioè che il premierato avrebbe ridotto i poteri del Colle, per poi accusare i giornalisti di non aver capito.

Così anche nel pomeriggio di lunedì il presidente, raggiunto dai cronisti, deve spiegarsi. Specifica che con Repubblica stava parlando di «invasioni di campo» della magistratura, suggerisce «di definire concordemente i limiti della interpretazione estensiva delle norme, che oggi è indefinita e che è quella che provoca i contrasti», «quello che io segnalo è che così non si può andare avanti con le liti». Poi tira in ballo il Quirinale: «Concordo con il presidente Mattarella che su questi temi occorra concordia e confronto».

È una lettura curiosa delle parole del capo dello Stato. In realtà Mattarella, due giorni fa, ha parlato della necessità della «collaborazione istituzionale»: riferimento generale, forse con un’attenzione alla scelta del giudice costituzionale mancante. Ma è da escludere che il garante della Costituzione intendesse suggerire, o sostenere, che c’è bisogno di una modifica della Carta per attuare tale «collaborazione».

Il Colle e il decreto

Al Colle più alto, nel pomeriggio di lunedì, l’attenzione era puntata sull’attesa del decreto approvato dal Consiglio dei ministri in serata, il testo con cui il governo vuole “rimediare” alla figuraccia albanese provando a blindare la possibilità di rimpatrio dei migranti nei ventidue paesi che l’Italia considera sicuri, a dispetto della sentenza della Corte di Giustizia europea.

Nelle stesse ore in cui il Cdm dava il via libera al testo, il capo dello Stato aveva in agenda la cena ufficiale con l’emiro del Qatar, Sheikh Tamim Bin Hamad Al Thani, in visita ufficiale in Italia. Difficile pensare che abbia avuto modo di leggerlo e di fare valutazioni. Ma ora tutti si chiedono: il Quirinale darà il via libera a un decreto che si contrappone in maniera così evidente a una sentenza europea?

Quanto alla riforma ventilata da La Russa, nessuna riflessione, nessun commento, neanche un accenno. Del resto, se da una parte la seconda carica dello stato ha alzato il tiro sul bersaglio vero, la separazione dei poteri scolpita nel Titolo IV della Carta, obiettivo storico della destra italiana sin dai tempi di Berlusconi, dall’altra ha abituato gli interlocutori alle sue «esternazioni» poco sorvegliate.

«Vorrei capire come la definizione dei confini tra le funzioni della politica e della giustizia possa essere meglio determinata in Costituzione di quanto già non sia», commenta invece Cesare Mirabelli, presidente emerito della Consulta, «i confini sono precisi: i giudici sono soggetti alla legge. Quindi il problema reale delle decisioni viziate da propensioni soggettive dei magistrati deve trovare soluzione nella complessiva organizzazione della giurisdizione e dei diversi gradi di giudizio». Mirabelli ammette che la sentenza di Roma possa essere sbagliata, ma attenti a evocare «modifiche costituzionali ogni giorno».

Insomma, La Russa se la prende con Montesquieu e le opposizioni attaccano: per il capogruppo del Pd Francesco Boccia le parole del presidente del Senato sono «inopportune», per Riccardo Magi di +Europa «è passato dalla chimera della rivoluzione liberale di Berlusconi alla minaccia di rivoluzione illiberale di Meloni», il rossoverde Angelo Bonelli organizza un flash-mob dinanzi a palazzo Madama contro il discorso «eversivo» di La Russa, di cui chiede le dimissioni.

Anche se in fondo non c’è bisogno di ventilare una nuova riforma costituzionale per raggiungere l’obiettivo che indica l’esponente di FdI: la destra ha già il progetto del premierato, anche se è impantanato alla Camera, che prevede lo spostamento di poteri dal Quirinale all’esecutivo. E la riforma della separazione delle carriere, l’unica che la destra pensa di poter far approvare, che tenta di portare la magistratura sotto il controllo della politica.

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