In vista delle elezioni europee dell’8-9 giugno le amministrazioni di Milano e Padova hanno inviato alle e ai presidenti dei seggi un vademecum in cui invitano gli ufficiali a disporre in un’unica fila, invece di due divise per genere, elettori ed elettrici che aspettano di votare, per non creare difficoltà alle persone transgender, rispettandone la privacy e la riservatezza, evitando loro inutili disagi.

Le iniziative di Milano e Padova

Il comune di Milano con la nota inviata agli ufficiali di seggio vuole evidenziare un problema: mettersi in fila in base al genere assegnato alla nascita «costringe, nei casi in cui esso non corrisponda alla propria identità o espressione di genere, a coming out forzati che possono sfociare in situazioni di imbarazzo o disgusto» e ciò porterebbe molte persone transgender a «scegliere di rinunciare al voto», e quindi a non esercitare il proprio diritto costituzionale.

Questo stesso problema è stato sollevato anche a Padova. L’assessora ai servizi anagrafici Francesca Benciolini: «Ci hanno fatto sapere che si tratta di cittadini che non si recano alle urne proprio per evitare queste situazioni di disagio». 

Si legge nel vademecum padovano: «Fermo restando che le liste per legge sono divise in maschi e femmine, invitiamo a non suddividere tra le file per non creare difficoltà a quelle persone il cui aspetto non corrisponde al genere anagrafico indicato sui documenti ufficiali, ovvero di transizione». 

A Padova il centrodestra è contrario e il consigliere leghista Ubaldo Lonardi si è detto «profondamente indignato, è un’indicazione assurda».

Cosa dice la norma sulla divisione di genere

La divisione delle liste elettorali per genere risale al 1 febbraio 1945, quando con un decreto il governo Bonomi aveva esteso il diritto di voto alle donne che avessero compiuto almeno 21 anni, e di conseguenza ordinava che venissero compilate le liste elettorali femminili in tutti i comuni, specificando che avrebbero dovuto essere «distinte da quelle maschili», visto anche che le liste elettorali degli uomini erano già presenti. 

La norma è stata confermata dalla legge n. 1058 del 7 ottobre 1947, che confermava il diritto di voto per le donne a partire dai 21 anni e la divisione per genere delle liste elettorali. A questo venne aggiunta la norma per cui sulle liste era necessario indicare nome e cognome dell’iscritto, la paternità, il luogo e la data di nascita, il titolo di studio, la professione e l’indirizzo di domicilio. Inoltre per le donne doveva essere indicato il cognome del marito.

Nel 1966 è stato abolito l’obbligo di indicare la paternità, mentre gli altri requisiti sono stati confermati da un decreto del presidente della Repubblica nel 1967. Nel 2003 sono state eliminate dalle liste elettorali le informazioni riguardanti il titolo di studio e la professione, ma permane la divisione di genere e l’obbligo, per le donne, di indicare il cognome del marito.

Inizialmente per le donne indicare il cognome del marito doveva essere un modo per evitare i casi di omonimia, ma con la digitalizzazione, che rende più facile identificare una persona, fornire tale informazione non è più necessario, inoltre per gli uomini tale metodo di identificazione, cioè attraverso la specificazione del cognome della moglie, non è mai stato adottato. 

I tentativi di cambiare la norma

Il tema delle liste elettorali distinte per genere è diventato ricorrente e in occasione di ogni tornata elettorale se ne discute. Per molti è evidente la necessità di cambiare una norma che sancisce la divisione degli elenchi elettorali per genere, risalente al 1945. 

Negli ultimi anni ci sono state diverse iniziative, in particolare la campagna del movimento “Io sono, io voto” dell’associazione Gruppo Trans di Bologna per rendere i seggi elettorali «accessibili, inclusivi e rispettosi per tutte le identità trans». In occasione del referendum costituzionale del 2020 e delle consultazioni elettorali nello stesso anno, il gruppo ha iniziato a raccogliere migliaia di firme «per ripensare le forme della partecipazione dei cittadini alla cosa pubblica e per garantire l’esercizio della democrazia e l’accessibilità del diritto al voto come sancito dall’articolo 48 della nostra Costituzione». 

Mentre ad aprile 2022 le ex deputate del Partito democratico Giuditta Pini e Angela Schirò, avevano presentato un disegno di legge per superare le distinzioni di genere tra le liste elettorali e l’obbligo per le donne di indicare il nome del marito. A maggio dello stesso anno la proposta è stata assegnata alla Commissione Affari costituzionali, ma la procedura si è fermata a causa dello scioglimento anticipato delle camere e tuttora è ferma, perché nessuna delle due proponenti è stata ricandidata alle ultime elezioni, e per essere approvata la norma dovrà essere presentata da altri parlamentari.

Pini e Schirò hanno proposto di unificare le liste elettorali seguendo l’ordine alfabetico e di utilizzare un codice univoco, assegnato insieme alla scheda elettorale, oppure il codice fiscale, per identificare con sicurezza elettori ed elettrici. 

Cambiare la legge sulla divisione delle liste elettorali è una battaglia che Cathy La Torre, avvocata e attivista per i diritti della comunità Lgbtq+, porta avanti da tempo. Alle elezioni del 2022 La Torre ha raccontato sui social un episodio che le è capitato al seggio in cui era andata a votare: «Sono appena uscita dal seggio e sono davvero molto scossa. Dopo aver chiesto che venisse messo a verbale che la suddivisione in liste di uomini e donne è lesiva della privacy e della dignità delle persone transgender, uno scrutatore ha chiamato le forze dell’ordine. Le forze dell’ordine sono state impeccabili, così come gli altri scrutatori e la presidente del seggio. Ma quello scrutatore mi ha diffamato davanti a tutti chiamandomi pazza». Inoltre La Torre ha denunciato sui suoi social la bocciatura dell’emendamento per dividere le liste elettorali su base alfabetica presentato dall’opposizione.

Lo scorso 9 aprile la Cassazione, dopo aver respinto il ricorso di due persone non binarie alla corte d’Appello di Bologna avanzato sempre dall’associazione Gruppo Trans di Bologna, ha stabilito che la divisione delle liste elettorali in due elenchi separati non lede il diritto di voto di chi non si riconosce nel genere assegnato alla nascita, poiché, secondo la Cassazione non incide in alcun modo sul suffragio universale.

I ricorrenti avevano chiesto di essere iscritti nelle liste elettorali comunali senza attribuzione né nella lista degli uomini né nella lista delle donne, «a tutela del pieno e libero esercizio del proprio diritto-dovere di voto in qualità di persone non binarie e non inquadrate nella rigida classificazione del rispettivo genere biologico», aggiungendo che «il mancato riconoscimento istituzionale della propria identità e il disagio a dover attendere la chiamata alle urne nella fila corrispondente al genere assegnato dalla nascita, dagli stessi non riconosciuto come proprio». 

La Cassazione ha motivato la sua decisione scrivendo che «non è chiaro in quale modo la suddivisione cartolare degli elettori a seconda del genere potrebbe conculcare tale diritto in capo ai soggetti che non si riconoscano né nel genere maschile, né in quello femminile, posto che nessun pregiudizio sul diritto di voto può ipotizzarsi o è previsto da una qualche norma quale conseguenza della suddetta mancata immedesimazione di genere» e poi ha aggiunto: «Parimenti, il senso di disagio e di imbarazzo lamentato dai ricorrenti nel corso delle operazioni elettorali non si vede a quale previsione normativa sia ricollegabile, visto che lo svolgimento di tali operazioni, che ben potrebbe essere diversamente organizzato, non prevede in alcun modo una ostensione o distinzione, fisica o visibile, degli elettori in base al genere risultante dalle liste elettorali».


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