All’attacco ci va, Elly Schlein, ma sul tema della sanità, quello su cui ha battuto nelle sue ormai quasi 120 tappe di campagna elettorale, con il salario minimo, il lavoro e la scuola pubblica. Alla fine, Giorgia Meloni ha dovuto cedere a intervenire su un tema che sentiva crescere, dopo aver sostenuto che il suo governo più di ogni altro ha messo soldi sulla sanità pubblica.

Il Consiglio dei ministri ha varato un decreto legge «per l’abbattimento delle liste d’attesa nelle strutture sanitarie». Per il Pd è solo «fuffa». Ma intanto un obiettivo la segretaria l’ha raggiunto. Meloni ha dovuto cambiare strada e strategia, e ha dovuto cedere alla campagna martellante delle opposizioni, in particolare quella del Pd. E di Schlein, che ha spinto sul tasto sanità anche a costo di suonare, come le dicevano in tanti, troppo ripetitiva.

«Non mi faccio distrarre»

In questa campagna elettorale, è andata sempre così. Ogni volta che anche i suoi le hanno chiesto di rispondere alle tante provocazioni di Meloni (ma anche di Matteo Salvini e Roberto Vannacci), Schlein ha frenato. E spiegato con pazienza la sua “linea”. Che è: «Non mi faccio distrarre dai rumori di fondo, i problemi del paese sono altri, Meloni vede un altro film».

Dopo il varo del decreto, e dopo le critiche severissime, ha sottolineato il punto segnato a proprio vantaggio: «Sono felice che ancora prima del voto dell’8 e del 9 giugno, la nostra campagna sulla sanità pubblica abbia già ottenuto un primo risultato: costringere il governo ad ammettere che avevamo ragione noi. E cioè che non ci sono risorse sufficienti per abbattere le liste di attesa».

«Alla vigilia del voto dell’8 e 9 giugno», ragiona un deputato vicino alla segretaria, «i frutti cominciano a vedersi». Non è stato facile convincere tutto il gruppo dirigente a non inseguire le provocazioni degli avversari e a rimanere sempre sull’agenda sociale del Pd, che corrisponde ai problemi reali del paese e a quello che si ascolta in giro per il paese. A non inseguire il linguaggio della destra, anche a costo di sembrare meno efficaci.

Per portare a casa fino in fondo il risultato, ieri la comunicazione del Pd ha persino azzardato una mossa inedita. Sotto il video trionfante di Meloni, postato su X, deputati, dirigenti e candidati dem hanno risposto in serie, denunciando quelle che descrivono come falsità. «Tagli impossibili alle liste d’attesa» (Marta Bonafoni); «Quindi è tutta colpa delle regioni?» (Cecilia Guerra); «Ci sono tanti modi di mentire, il suo è il peggiore», (Marco Furfaro); «Governate da due anni e solo a tre giorni dalle elezioni vi accorgete che le persone non riescono più a curarsi?» (Alessandro Zan); «Solo fuffa elettorale» (Debora Serracchiani); «Sei costretta a darci ragione» (Francesco Boccia); «Tante parole, ma il testo approvato non mette le risorse che servono» (Alessandro Alfieri). Una «operazione corsara», così viene definita, che ha finito per innescare un’onda di critiche alla premier, spiazzandola.

L’inversione dei ruoli

Ormai la “polarizzazione” dello scontro fra Meloni e Schlein è un fatto – con stizza di altri contendenti, come Giuseppe Conte, che non perde occasione per cercare di buttarsi nella mischia, ignorato per lo più dall’una e dall’altra. Per Schlein ormai, a tre giorni dal fischio finale, il rischio di cadere nelle trappole dell’avversaria è scongiurato. Schlein esibisce estraneità al racconto meloniano del paese: «Faccio fatica a capire che lingua sta parlando Meloni». I due stili della campagna del resto sono opposti. E, paradossalmente, raccontano un’inversione di ruoli.

Meloni, che è premier e dovrebbe mantenere una postura istituzionale, è andata di giorno in giorno sempre più all’attacco, come fa chi insegue e gioca il tutto per il tutto per guadagnarsi un voto in più. Ha rispolverato l’armamentario di quando era leader di un piccolo partito in lotta per il quorum, spinto sul tasto identitario, e dimostrato di aver perso per strada l’ambizione di presentarsi come una leader conservatrice capace di allargare i confini della destra post missina segnati alle scorse politiche. Forse capendo, in ritardo, che l’astensionismo sarà forte – cosa che tradizionalmente favorisce la sinistra – e che quindi deve trascinare nelle urne innanzitutto i suoi.

Schlein, che pure sa che arriverà seconda, ha tenuto un linguaggio più sorvegliato e persino istituzionale, da leader di una “forza tranquilla”, storico slogan della campagna di Francois Mitterrand alle presidenziali francesi del 1981, poi stracitato dalla sinistra italiana. La segretaria ha iniziato a fare politica con Romano Prodi (che pure oggi le è distante, nella frastagliata geografia interna del Pd). È il suo imprinting, ma non gli assomiglia: lei è giovane ed ha piglio, anche se ha scelto di non inseguire l’avversaria nella corsa ai decibel.

I sondaggi e i vecchi saggi

Non resta che aspettare di vedere se funzionerà nelle urne. Gli ultimi sondaggi, che si possono effettuare ma non pubblicare, sembrerebbero dare un responso positivo.

Ma poi ci sono i vecchi saggi del Pd, quelli che sanno fiutare l’aria per esperienza, e soprattutto perché hanno vissuto le tante stagioni diverse del partito. Ecco, alcuni di loro dicono invece che a funzionare è lei, Elly: ai comizi e nelle piazze si rivede una parte almeno di quelli che erano andati a casa, come, in scala, è successo alle primarie.

Molti elettori “anziani”, viene spiegato, vedono una donna, giovane, con un linguaggio diverso dagli altri segretari, e concludono che nel partito qualcosa si muove. Schlein del resto ha allargato il raggio: va spesso in tv, dove non prevale il pubblico giovane, e persino nelle reti Mediaset, che non hanno solo un pubblico schierato a destra. Poi, certo, ci sono i giovani, quelli che riconoscono in lei una compagna di strada nei cortei per il clima e per i diritti civili. Infine: era stata accusata, anche da una parte dei suoi, di “radicalizzare” il Pd: l’impressione è che stia riuscendo anche a non perdere i moderati.

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