La direzione e i gruppi parlamentari danno al leader un mandato all’unanimità per trattare con chi ci sta. Purché «responsabili, costruttivi e non mettano veti». Esclusi i Cinque stelle, nell’identikit non sembra esserci il profilo di Matteo Renzi
«Vedrete Salvini pieno di Madonne, Berlusconi con le foto del 2004, la Meloni con la peggior destra del mondo, che ha perso in America e che perderà anche in Italia, perché vinceremo noi». Enrico Letta apre la direzione allargata ai gruppi parlamentari con una chiamata alla battaglia elettorale e disegnando, con tre pennellate, la destra avversaria.
Tanto per cominciare manda un saluto ai ragazzi dei Friday’s for future riuniti a Torino, «giovani da tutta Europa che ragionano su come svegliare un politica. Ma mentre loro sono lì a discutere del futuro, la destra ha l’obiettivo di affossare il green deal europeo. Vogliono fare una grande sterzata, una grande marcia indietro; che la Polonia e l’Ungheria non possono fare da sole, ma potrebbero invece con un’Italia alleata».
Alleanza elettorale
Il segretario batte sul tasto della destra «nero fossile» che rischia di vincere alle politiche del 25 settembre. E allora ai suoi riuniti davanti a lui, in presenza e da remoto, fa una proposta che fino a ieri sembrava impraticabile e chiede un mandato per trattare. Innanzitutto nessuno dovrà fare troppo lo schizzinoso sulle candidature: «O noi o Meloni vuol dire che o noi convinciamo con qualcuno che in passato ha votato per loro o noi questa sfida non la vinciamo».
Ce l’ha, per esempio, con le possibili corse di ex forzisti in qualche eventuale lista sorella: «Dobbiamo toglierci dalla testa il ragionamento per cui: se quello sta con voi non vi voto. Noi siamo responsabili per la nostra lista, per quello che siamo noi, per il nostro programma».
Ma il cuore della proposta è una specie di uovo di colombo: «Le alleanze che stipuleremo saranno solo alleanze elettorali: questa legge elettorale non postula coalizioni con un simbolo, ma postula solo alleanze elettorali. E siglare alleanze elettorali è importante, fa la differenza e ci dobbiamo provare».
Sulla premiership discussione surreale
Insomma il mandato, che gli viene dato all’unanimità, è quello di chiedere a chi ci sta di accettare un’alleanza solo elettorale. Ci sono pochi giorni per chiudere gli accordi: entro il 14 agosto si debbono consegnare i contrassegni, ovvero i simboli, entro il 22 si debbono consegnare le liste e le alleanze.
Nel dibattito vengono nominati i rossoverdi di Nicola Fratoianni e Azione e Più Europa di Carlo Calenda, c’è chi nomina – non amichevolmente – il ministro degli esteri Luigi Di Maio, mentre a Italia viva non viene riservata, per ora, neanche un’allusione. Letta sarà il «front runner» della lista del Pd «per una Italia democratica e progressista».
«Assumo fino in fondo questa responsabilità», dice. E per i presenti non c’è neanche bisogno di ricordare che questo significa che per il Pd sarà il segretario il candidato premier. Pazienza se da fuori Carlo Calenda dice che se Mario Draghi non sarà disponibile ad essere considerato un candidato premier – qualche segnale di irritazione deve essere arrivato da palazzi Chigi – «allora mi candiderei io».
Nella relazione Letta tira innanzi e prova a smina il campo, diventato stretto ma non per questo meno litigioso. Offrendo un altro punto di vista questione dopo questione, con pazienza. Per esempio sul punto del candidato a palazzo Chigi: «Ho letto ieri, sulle agenzie, la discussione sulla premiership, una discussione che ho trovato surreale». Poi c’è la questione dell’agenda Draghi: ma quella era un’agenda di mediazione con le destre di governo: «Il Pd avrà l’Agenda del Pd».
I tre criteri
Letta dunque chiede un mandato a trattare su tre criteri: «Andare a discutere con forze politiche fuori dal trio della irresponsabilità e che portino un valore aggiunto, e non è un’ovvietà. Poi, che si approccino con spirito costruttivo, senza insulti nei confronti di nessuno, senza veti, l’altro fondamentale atteggiamento».
Dunque, nell’identikit degli alleabili non ci sono i Cinque stelle, in prima posizione nella terna dei partiti che hanno fatto cadere il governo Draghi; non sembra esserci Italia viva, che non porterebbe «valore aggiunto»: nel Pd la percezione precisa, raccolta soprattutto dagli iscritti e dai militanti, è che imbarcare Renzi farebbe perdere più voti di quelli che potrebbe guadagnare.
E infine c’è lo «spirito costruttivo» ovvero lo stop ai «veti»: e qui invece c’è un messaggio a Carlo Calenda che ha passato gli scorsi giorni a offrirsi come alleato del Pd, a patto di lasciare a casa i rossoverdi (per esempio contrari all’inceneritore romano). I rossoverdi fin qui hanno ricambiato la cortesia, spiegando che non si possono alleare con chi propone il ritorno all’energia nucleare (che non è la posizione del Pd, del resto).
Occhio a Calenda
Nel dibattito c’è chi chiede, come Goffredo Bettini, di «verificare bene il rapporto con il Patto repubblicano di Calenda, per le differenze di fondo che lui stesso ha voluto rimarcare. Calenda ha fatto della demolizione degli altri la sua cifra politica, si erge a giudice di ogni singola forza o personalità politica, non se ne salva nessuna, ha diviso fra i buoni e i cattivi».
E lo sa bene chi è stato, non da solo, il bersaglio preferito nella campagna elettorale romana di Azione. Bettini si dichiara pronto ad accettare le decisioni del segretario ma chiede di valutare «in profondità» queste sue riflessioni, che non sono solo sue, «soprattutto se la sua presenza impedisce la coalizione con Fratoianni».
Il vicesegretario Peppe Provenzano invece chiede di evitare di dare l’impressione di voler costruire «un’alleanza degli inclusi, sarebbe un regalo a Meloni». Anche il ministro Andrea Orlando chiede che ci sia un «nitore» del messaggio politico del Pd, «perché il problema sarà anche come si sviluppa concretamente la campagna elettorale. Se dovessimo censurarci perché c’è uno che ti smentisce, rinunceremmo alle nostre potenzialità di fuoco».
Matteo Orfini rincara: «Non mettiamo veti sulle persone, ma se vogliamo fare pace con il mondo della scuola non potremo avere qualcuno che non ce lo fa fare». L’allusione è probabilmente all’ex ministra Maria Stella Gelmini, “indimenticabile” titolare di una riforma della scuola molto contestata nell’era Berlusconi; ma forse pensa anche a Lucia Azzolina, ministra del governo Conte 2, la cui candidatura non sarenne precisamente un invito al voto per insegnanti e precari.
Sul tema degli ex Cinque stelle oggi fuorisciti dalla casa madrea Laura Boldrini ricorda «chi parlò del “partito di Bibbiano e di taxi del mare». Ce l’ha Luigi Di Maio, quando era ministro del governo Conte uno.
Letta prende appunti e rassicura tutti di «aver ascoltato». Le liste del Pd saranno allargate ai civici, per provare a contendere gli inespugnabili collegi uninominali («quei sessanta seggi che possono fare la differenza»). Ora proverà a mettere insieme almeno il Patto Repubblicano e i rossoverdi. La legge non gli consente di non tentare, se non a patto di condannare il paese a una vittoria delle destre. A condizione, appunto, che quella che si prova a stringere sia un’alleanza «elettorale», che consentirà a ciascuno «di tenersi i propri programmi». Resta una mission impossible sulla carta. Ma lui crede di riuscirci.
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