La fiamma arderà ancora nel cuore del simbolo di Fratelli d’Italia. Giorgia Meloni non vuol sentirne nemmeno parlare: «Non è all’ordine del giorno», ha scandito nell’intervista rilasciata a Sette.

Nessun cambiamento è quindi in cantiere. È stato già archiviato il dibattito che il ministro per i rapporti con il parlamento, Luca Ciriani, aveva provato ad aprire. Nell’auspicio di un passo in avanti. Invece la fiamma che richiama il Movimento sociale italiano resta intoccabile.

Dubbio Trump

E siccome i simbolismi hanno un valore, l’annuncio di Meloni è il preludio di un anno di ulteriore arroccamento della presidente del Consiglio. Con una spruzzata di ritorno all’origine sovranista. Sull’ipotesi di partecipare alla cerimonia di Donald Trump alla Casa Bianca, infatti dall’inner circle meloniano trapela un «ci sta pensando».

Le voci di un declino all’invito, che pure erano circolate nei giorni scorsi, sono state smorzate. Segnale di un possibile volo Oltreoceano per omaggiare il tycoon che prenderà il posto del presidente uscente, Joe Biden, con cui finora ha sempre mantenuto un buon rapporto.

La direzione intrapresa da FdI è dunque più vicina all’estremismo sovranista trumpiano che all’evoluzione di una forza conservatrice moderna. La cartina di tornasole risiede del resto nei gesti pratici verso chi arriva da fuori, tipo i deputati Gianfranco Rotondi e Giulio Tremonti. Entrambi ben accetti per dare una verniciata di moderatismo, ma che alla fine restano ai margini.

Due che a Montecitorio non stanno lasciando tracce in questa legislatura: sono considerati estranei alla storia e al perimetro di FdI. Al giro di boa della legislatura, altri nomi nuovi inseriti nelle fila del partito meloniano – come l’ex presidente del Senato Marcello Pera e l’ex ministro degli Esteri Giulio Terzi – hanno avuto poco spazio e zero visibilità. Vince il modello Fazzolari, il sottosegretario che resta il principale ideologo del melonismo: un partito tutto fiamma, famiglia e cameratismo di vecchia data.

La conferenza stampa di giovedì 9 gennaio sarà il primo vero appuntamento pubblico del 2025 di Meloni, che ha ormai abbandonato la tradizione di un bilancio di fine anno con la stampa parlamentare. Preferisce farlo all’inizio del nuovo. E sempre con malcelato fastidio, come testimoniano i rari confronti con i giornalisti, a meno che non accettino monologhi.

Da quanto emerge, l’antifona non è destinata a cambiare. Meloni affila la propaganda, come quella sull’abbattimento delle Vele a Scampia, rilanciato a reti unificate dagli esponenti del suo partito, e il battage comunicativo sulle misure come i centri per i migranti in Albania, utili soprattutto per sviare l’attenzione dalle questioni centrali della politica economica. Ma, appunto, i temi scomodi vengono ignorati preferendo il mix tra storytelling ottimistico e la solita nenia vittimista sui presunti nemici incarnati da non meglio identificati poteri forti.

Ritorno in aula

Il nuovo anno porta ovviamente la riapertura del parlamento. Dalla prossima settimana si parte con una serie di decreti da esaminare e convertire a tappe forzate. In testa c’è il Milleproroghe che solitamente rappresenta la coda velenosa della legge di Bilancio, in cui i parlamentari cercano di far rientrare dalla finestra quello che non è riuscito a essere inserito dalla porta principale della finanziaria.

Poi ci sono ancora il decreto Cultura, materia già terreno di scontro all’interno della maggioranza e ancora di più all’interno di Fratelli d’Italia. E poi c’è quello sull’Ucraina, che è al riparo da modifiche in aula. Non sarà seppellito da emendamenti, ma è pronto a far deflagrare le incomprensioni con la Lega, sempre più schierata su una posizione ostile all’invio di nuove armi all’esercito di Kiev.

L’ingorgo parlamentare è insomma assicurato, così come la compressione dei tempi dei dibattiti, che favorisce uno slittamento degli altri dossier, a cominciare dalla riforma della Costituzione per l'istituzione del premierato.

Il corpo a corpo con il partito di Salvini si sta intensificando dopo il discorso critico di Massimiliano Romeo, capogruppo leghista al Senato, durante le dichiarazioni di voto sulla manovra. E ancora venerdì 3 gennaio Romeo, neo segretario della Lega in Lombardia, ha lasciato intendere che per il sindaco di Milano non si accettano fughe in avanti: «Alessandro Sallusti candidato? Presto per fare nomi».

Intanto Salvini si è lanciato nella propaganda a spron battuto parlando a ruota libera, compresa l’idea di riaprire le case chiuse: «Sarei personalmente a favore della regolamentazione del mestiere della prostituta o del prostituto».

Ma il pallino è l’esaltazione del Codice della strada, che si è intestato come battaglia personale, alla pari dell’avvio dei lavori per il Ponte sullo stretto. Il vicepremier ha fatto diffondere prima una nota congiunta del Viminale e del suo ministero dei Trasporti e poi ha rilanciato il concetto in una diretta social. «A Capodanno gli incidenti sono calati del 21 per cento», ha detto. Attirando le repliche delle opposizioni. «I dati di Salvini non considerano gli incidenti rilevati dalla polizia municipale (il 64 per cento del totale)», ha osservato Matteo Renzi.

La deputata di Avs, Francesca Ghirra, ha rilanciato: «Nei 15 giorni successivi all'entrata in vigore delle modifiche al Codice della strada sono morte sulle strade italiane almeno 111 persone, più del doppio delle 50 dichiarate dal ministro». Con una richiesta: «Stop a questa cinica propaganda sulla pelle delle vittime della strada».

Ma la propaganda senza freni resta intoccabile nel governo. Proprio come l’eredità della fiamma per Fratelli d’Italia.

© Riproduzione riservata