Tramontata l’ipotesi tecnica, la premier nomina un altro fedelissimo. Niente riequilibrio con Forza Italia, il dicastero per il Meridione a un piacentino
Rapida, per essere il più possibile indolore. La premier Giorgia Meloni ha lasciato passare appena un fine settimana tra le dimissioni formali dell’ex ministro e neo vicepresidente esecutivo della Commissione europea, Raffaele Fitto, e la nomina del suo sostituto al dicastero degli Affari europei e del Sud, con la delicata delega al Pnrr.
Sorda alle richieste degli alleati, in particolare di Forza Italia che sperava in un riequilibrio della compagine di governo a proprio favore, Meloni è andata a colpo sicuro promuovendo ministro il capogruppo di FdI alla Camera, Tommaso Foti. Uomo di comprovata fede meloniana, saldissimo nella guida del gruppo parlamentare e politico di esperienza con sei legislature sulle spalle, Foti deve essere sembrato la soluzione migliore per evitare ulteriori intoppi e litigi all’interno della maggioranza.
Ed è stata la stessa premier, con il suo messaggio di congratulazioni, a certificare che ciò che ha pesato nella scelta è stata anzitutto la sua assoluta fedeltà alla causa. «È un militante, appassionato e coerente, che ha dedicato fin da giovanissimo la sua vita al servizio della sua comunità e della Nazione», lo ha descritto la presidente del Consiglio. Parole inusuali proprio perché fuori da ogni formalità. Di Foti, insomma, sono state premiate in particolare le radici giovanili nel Msi e la sua storica militanza a destra.
Del resto, nemmeno a farlo apposta, ieri è stato anche il giorno in cui Meloni ha dismesso i panni istituzionali per tornare a indossare quelli della leader politica, ricordando con enfasi sul suo profilo social il settimo anniversario della fondazione di FdI. «Noi siamo carne, sangue, passioni di qualcosa che viene da lontano e che andrà ancora più lontano», ha scritto, citando un suo passaggio del discorso di Trieste, in cui aveva rivendicato di non essere «un capriccio della storia» e avvertito: «Non sottovalutateci». Parole che, ora che l’ex pasionaria della destra sociale siede a palazzo Chigi, suonano più che premonitrici.
Eppure, dal post con annesso video di quel discorso, trasuda anche la nostalgia di tempi decisamente più semplici rispetto a quelli presenti, in cui Meloni, in privato, è tornata a minacciare dimissioni anticipate nel caso in cui percepisca che gli alleati – sempre più ai ferri corti proprio nelle settimane decisive della manovra di bilancio – vogliano portare avanti una sotterranea guerra di logoramento.
Così, accantonate le scelte tecniche come quella, vagheggiata, della capa del Dis, Elisabetta Belloni, la scelta di Foti per il dopo Fitto è l’ovvia conseguenza di questa tensione. La necessità della premier, oggi più che mai, è quella di circondarsi di persone che lei considera più che fidate, soprattutto nei posti chiave dove la concertazione delle scelte con Palazzo Chigi deve essere massima.
Dentro la maggioranza
«Tommaso è un politico di grande esperienza e capacità, tra le migliori risorse di cui Fratelli d’Italia dispone oggi», ha spiegato Meloni. La premier non ha mai davvero preso in considerazione l’ipotesi di far perdere al suo partito un ministro in ottica di bilanciamento interno. «Un ministro di Fratelli d’Italia è uscito, uno di Fratelli d’Italia è arrivato», è il ragionamento che filtra dall’entourage, quasi si trattasse di una constatazione ovvia e indipendente dagli “appetiti” di Forza Italia.
Eppure, scegliendo il capogruppo di FdI alla Camera, la premier sapeva di mettere in campo un nome apprezzato anche dagli alleati, di cui sarebbe difficile mettere in discussione la competenza, anche se in molti parlano della durezza del suo carattere.
Davanti al suo nome anche FI ha scelto il passo indietro. «È solo una leggenda metropolitana che noi avessimo chiesto quel ruolo. Ho mandato a Tommaso un messaggio di congratulazioni alle 2.54 di questa notte, forse sono stato il primo», ha detto il forzista Maurizio Gasparri, descrivendo il collega come «persona solida e molto capace».
Eppure, un neo resta: i mugugni dei parlamentari meridionali che si ritrovano un ministro emiliano con la delega al Sud. Anche se, spiegano i più cinici, la competenza è di gran lunga secondaria rispetto a quella al Pnrr e agli Affari europei.
Se la Lega si è limitata alle congratulazioni di circostanza, con l’asciutto «Buon lavoro e benvenuto in squadra» di Matteo Salvini e nessuna parola in più nemmeno dai capogruppo, di Forza Italia si sono fatte sentire voci più calorose, e una è spiccata su tutte come apertura di credito.
Il presidente della regione Calabria, Roberto Occhiuto, che raduna intorno a sé buona parte della frangia meridionalista del partito, ha espresso le sue congratulazioni, «nella certezza che saprà ricoprire questo incarico con autorevolezza e competenza».
Meloni in solitaria
Eppure la scelta amplifica, invece che sedare, le tensioni interne al governo. Al netto della scelta di Foti, è il metodo Meloni a lasciare sempre più freddi gli alleati. Anche in questa occasione la premier si è mossa in autonomia rispetto ai vicepremier Antonio Tajani e Salvini.
«Poteva farlo e l’ha fatto», è il ragionamento di una fonte interna al centrodestra. Anche a costo di mostrare plasticamente quanto Palazzo Chigi sia il fulcro di tutto e la smania accentratrice – figlia anche di una sempre più crescente diffidenza nei confronti degli alleati – ormai sia un dato incontestabile.
Del resto, ora il primo obiettivo è arrivare indenne alla fine dell’anno con la manovra approvata e nessuna nuova polemica con il Quirinale, possibilmente senza dover sostituire altri ministri (il caso giudiziario di Daniela Santanchè pende ancora sull’esecutivo) e in attesa di tempi migliori.
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