Lunedì 26 agosto il vicepremier Matteo Salvini, è tornato, per la Giornata mondiale del cane, sul tema del rapporto con gli animali. Un punto solo apparentemente marginale.

Non solo perché in Italia si contano ormai diciannove milioni di «amici a quattro zampe» i cui padroni (forse il termine è desueto, in caso me ne scuso) possono sempre essere un bacino elettorale da cui attingere, ma anche perché, per altri versi, è un tassello della più vasta campagna nazionalista che ha sconvolto il quadro politico negli ultimi quindici anni.

Più volte i partiti sovranisti a tutte le latitudini hanno intersecato il tema del benessere animale con quello della macellazione rituale, stabilendo una singolare alleanza con le frange animaliste più radicali e con il cosiddetto ecologismo di destra, o addirittura con l’ecofascismo (vedere, Francesca Santolini, Ecofascismo. Estrema destra e ambiente) di chiara matrice neonazista.

A mia memoria, iniziò Geert Wilders nel 2009, con una proposta di legge che passò in una Camera del parlamento olandese per essere poi fermata. Di lì Le Pen e, appunto, Salvini, che dal pratone di Pontida nel 2018, anno del suo apice, urlò che era giunto il momento di occuparsi di chi maltratta gli animali.

Il riferimento era alla macellazione islamica halal, ma finì per includere la macellazione ebraica kasher, visto che i metodi sono molto simili. Non a caso le urla scomposte del leader leghista suscitarono la reazione del rabbino capo di Roma, Riccardo di Segni, che denunciò il proprio timore a mezzo stampa.

Davvero propaganda bizzarra dal momento che la Lega ha sempre chiesto l’estensione della stagione della caccia, considerata in alcuni suoi feudi elettorali un’irrinunciabile tradizione locale. Anche ora giace in commissione Agricoltura una proposta di legge del deputato leghista Francesco Bruzzone definita la “spara-tutto”.

Registro propagandistico

Un’ulteriore prova di come ormai l’azione politica di Salvini non riesca a discostarsi da un registro propagandistico che tenta di sfruttare l’onda emotiva del momento, anche a costo di contraddire continuamente se stesso.

Ereditata una Lega ridotta al 3 per cento dagli scandali che l’avevano travolta, l’ex rampollo di Umberto Bossi, è riuscito nel capolavoro di convertirla a partito nazionale, legandola alla corrente nascente del neo-nazionalismo europeo che aveva come capofila Viktor Orbán.

Non credo che alla base ci fosse chissà quale analisi teorica su un elettorato centrista ormai frustrato e arrabbiato dall’impoverimento imposto dallo spostarsi verso Oriente del manifatturiero.

Lo ha fatto, semplicemente, a suo modo: legittimando i peggiori istinti popolari con anche campagne d’odio feroci orchestrate dall’amico fidato Luca Morisi.

Dopo un’ascesa inarrestabile che ha conosciuto anche i fenomeni di esaltazione del leader di berlusconiana memoria, si è così ritrovato con un consenso del 34 per cento alle europee 2019. Poi, il Papeete.

Da lì, un declino inesorabile che lo ha visto perdere, dalle regionali in Emilia-Romagna in giù, in tutte, dicasi tutte, le tornate elettorali, vedendosi sottrarre anche antiche roccaforti come Verona. Fino all’attuale 8 per cento che alla Lega arriva fisiologicamente da quell’elettorato ostile alle tasse e alla burocrazia, che limita davvero piccola e grande imprenditoria.

Corsa contro vento

Ma non è solo questo. Da tempo Salvini corre contro vento. È proprio il mondo che è girato al contrario rispetto agli anni delle sue vette. L’amore per Vladimir Putin difensore della «razza bianca» si è tramutato in un clamoroso boomerang dopo il febbraio 2022, che ha anche portato allo smembramento di Visegrád isolando ulteriormente Orbán, già espulso dal Ppe.

I temi tradizionalisti a lui cari sono di giorno in giorno superati dal formarsi di una società multiculturale che richiede ben altre risposte rispetto alla nostalgia del piccolo borgo antico. Persino le recenti medaglie olimpiche gli hanno schiaffato in faccia un’Italia opposta alla sua narrazione. Non parliamo dell’immigrazione, che il settore industriale a lui vicino chiede a gran voce per colmare il deficit demografico. Ben presto la destra virerà verso i porti aperti.

La pandemia ha spazzato via le sue idiozie antiscientifiche e si è ritrovato a votare lockdown e Green pass dagli scranni del governo Draghi. Ancora, l’aumento della vita media porterà in modo sempre più esplicito ad affrontare il tema del fine vita in modo serio, azzerando le sue strizzate d’occhio verso l’ala cattolica più tradizionalista.

Insomma, quello di Salvini è un mondo al contrario, che, però, rischia di essergli sottratto dalle mani dalla sua creatura Roberto Vannacci, adattissima figura per crearsi la propria riserva indiana, a cui la Lega, che un elettorato vero ce l’ha, non può ridursi a essere. Di fronte a questa catastrofe politica cosa aspetta il partito a cambiare leader? È come nel calcio: il mondo evolve, non si possono applicare vecchi schemi a realtà nuove.

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