I primi di cui non sembra fidarsi affatto la presidente del Consiglio sono gli uomini del suo partito, quelli che non sono stati promossi ai ranghi superiori del governo e che oggi faticano a restare al loro posto tra chat convulse, attacchi a ministri non allineati, gaffe tollerabili forse quando FdI era all’opposizione con il 5 per cento e non al governo con il 30 per cento dei consensi
Governare logora. Vale per tutti e ancor di più per Giorgia Meloni che ha sempre indicato un orizzonte di legislatura. Ciò significa che l’esecutivo ha davanti potenzialmente altri tre anni, ma se il registro del rapporto tra presidente del Consiglio, ministri e ministeri è quello che si è visto nelle ultime settimane questi tre anni rischiano di trasformarsi in un percorso molto faticoso e accidentato.
Quando è esploso il caso Sangiuliano, Meloni aveva due strade davanti a sé: quella che ha preso, e cioè la sostituzione del singolo ministro dimissionario; oppure un rimpasto più rischioso sul piano degli equilibri politici, ma che le avrebbe permesso di rivedere molte caselle soprattutto legate al suo partito.
La sostituzione di Gennaro Sangiuliano non ha risolto tutti i problemi del ministero della Cultura, ma non si può nemmeno passare il tempo a crocifiggere il neo nominato Alessandro Giuli. Un ministro ha il dovere di scegliersi i collaboratori diretti che ritiene migliori al di là delle appartenenze politiche.
Poteva esserci forse maggior cautela sul profilo del capo di gabinetto, ma questo non giustifica la reazione sguaiata di Fratelli d’Italia che ha concorso alle dimissioni di Francesco Spano e agli attacchi a Giuli.
Fratelli ma non troppo
Nel partito dovrebbero invece domandarsi perché al ministero della Cultura la presidente del Consiglio abbia scelto per due volte personalità esterne a Fratelli d’Italia e rispondersi che la premier evidentemente non ritiene nessuno dei suoi parlamentari all’altezza del ruolo.
È un caso che si aggiunge ai già numerosi imbarazzi che Fratelli d’Italia crea a Meloni. Freddezza tra partito e ministro sembra esserci, e non da oggi, anche nel caso della Difesa. Ma Guido Crosetto, che non ha probabilmente nella diplomazia la sua miglior qualità, resta comunque uno pedina molto importante per i rapporti internazionali ed economici e nella trasformazione di un settore che è centrale per il futuro della politica estera.
Importante è anche il posto che a breve lascerà Raffaele Fitto, dominus del Pnrr, su cui non c’è certezza di futuro. Si ipotizza una divisione dei compiti, ma può un ruolo così delicato che riguarda la fase finale dell’attuazione del Piano rimanere senza leadership?
È uno scenario che mostra una mancanza assoluta di risorse nel partito della presidente del Consiglio. Si è detto spesso che Meloni viva nella paura di complotti e congiure, presunte macchinazioni ordite principalmente dalla magistratura e dall’alta dirigenza pubblica. Un meccanismo che la porta a non fidarsi di nessuno e a fare della parentela il veicolo principale della fiducia.
Generazione Atreju
Ma la realtà è ben più grave di qualche paranoia complottista: i primi di cui non sembra fidarsi affatto la presidente del Consiglio sono gli uomini del suo partito, quella “generazione Atreju” che non è stata promossa ai ranghi superiori del governo e che oggi fatica a restare al suo posto tra chat convulse, attacchi a ministri non allineati, gaffe tollerabili forse quando il partito era all’opposizione con 5 per cento e non al governo con il 30 per cento dei consensi.
E quello a cui si è assistito nelle ultime settimane non è soltanto una forma di pressappochismo politico ma una lotta di potere interna a Fratelli d’Italia che Meloni è costretta a gestire. Un pezzo dei parlamentari di Fratelli d’Italia è evidentemente maldisposta, dopo due anni di governo, a recitare soltanto il ruolo di peones.
La generazione Atreju si vede scavalcata, nelle poltrone che contano al governo, da giornalisti, tecnici, uomini della stagione berlusconiana, ex colonnelli finiani. E questo stato di cose inizia a stare stretto a un partito, una comunità chiusa ancora nella sua identità, che vorrebbe invece entrare nelle stanze che contano. Da qui l’insofferenza verso i Giuli, i Crosetto, i Mantovano.
È per ora una sommossa scomposta che si muove tra WhatsApp e le stanze dì Montecitorio, che non ha un regista all’altezza in grado di incalzare la premier, ma che genera attriti e casi istituzionali. Nei prossimi mesi Meloni dovrà cercare di gestire questa dinamica, di frenare l’assalto alla diligenza dei suoi parlamentari. Difendere con decisione gli attuali ministri, per quanto anche essi non privi di debolezze, diviene fondamentale per evitare faide interne su cui il governo può farsi male.
E poi la premier dovrebbe ricordare al suo partito che, per come funziona oggi la politica, se Meloni sparisse all’improvviso Fratelli d’Italia cadrebbe nell’oblio con lei. Questa è una debolezza, se osservata con le lenti della scienza politica, a cui la premier dovrebbe metter mano per lasciare una eredità futura. Ma è al tempo stesso anche una forza formidabile per ricordare al riottoso e scalpitante partito chi ha il coltello dalla parte del manico.
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