Il richiamo della foresta è stato troppo forte e così la fiamma post missina continua ad ardere con intensità bruciando i ponti del dialogo.

Messa di fronte al bivio tra l’oltranzismo identitario con le venature sovraniste degli esordi e il dialogo pragmatico con il governo europeo, Giorgia Meloni ha scelto la prima opzione: il voto contrario a Ursula von der Leyen e la conseguente irrilevanza nella stanza dei bottoni.

Fiutata l’aria, la premier ha cercato di tranquillizzare: «Non è compromessa la collaborazione con la Commissione». Ufficialmente il suo è un no al «metodo» e «nel merito». Il sì dei Verdi, peraltro noto da giorni, è stato giudicato inaccettabile.

Più Orban che Merkel

Al netto delle parole, però, Meloni ha confermato di essere più vicina a Viktor Orbán che a una svolta in stile Angela Merkel. Non ha spostato i Conservatori in un’area meno radicale, FdI sarà junior partner della destra radicale di Marine Le Pen, del primo ministro ungherese e di quel gruppo di Patrioti in cui trova spazio Matteo Salvini.

Trasposto in ambito italiano, la premier ha mostrato maggiore affinità con il leader della Lega, rispetto ad Antonio Tajani, da sempre schierato con i Popolari. Un processo, quello di Meloni, che non sembra frutto del caso, ma traccia una rotta precisa per il futuro.

L’esito è quello che porta l’Italia a essere la periferia dell’Europa. La ragione del ridimensionamento è la vanità politica di Fratelli d’Italia incapace di compiere un’evoluzione.

Anche solo per tutelare «quell’interesse nazionale» indicato, almeno nello storytelling, come una stella polare del partito. Ci sono stati abboccamenti, contatti, sforzi con i vertici di Bruxelles. A nulla è servito l’approccio di von der Leyen, molto accondiscendente nei confronti delle bizze italiane, tanto da avallare alcune richieste fatte da palazzo Chigi.

Compresa una buona flessibilità sui conti. Anche nel discorso programmatico è arrivata la concessione sulle politiche migratorie e sulla sburocratizzazione, due capisaldi messi sul tavolo dai meloniani. Di più non poteva, di sicuro non era immaginabile un rinnegamento del Green Deal portato avanti negli ultimi anni.

Voto surreale

L’operazione “richiamo della foresta” non è esente da effetti, quindi. E certifica la prevalenza dell’anima più a destra. Altro che Conservatori.

Certo, Meloni si è mossa sul filo, come un thriller, al limite del surrealismo: ha fatto circolare degli spin propagandistici, ha distillato le informazioni e, al momento della votazione, nessuno del suo partito della premier aveva espresso una reale posizione. «Per non condizionare il voto», la motivazione ufficiale fornita dopo l’esito. Un segnale di grande confusione.

Carlo Fidanza, eurodeputato di FdI, aveva indossato già prima di Meloni i panni del pompiere. «Non riteniamo la nomina di von der Leyen una partita collegata al peso che il commissario italiano avrà nella futura Commissione. L’Italia avrà un ruolo di tutto rispetto», ha detto. Un anticipo della ridda di affermazioni che sono andate in questa direzione.

L’affannosa corsa alla rassicurazione sui rapporti con la Commissione europea è una spia accesa. Del resto, al netto dei mantra di autoconvincimento, la premier ha assestato un colpo all’immagine del governo.

D’ora in poi l’affidabilità non sarà considerata il punto forte di Meloni: non una ripicca da parte degli interlocutori, bensì un dato di fatto. Il Pd ha chiesto un chiarimento ufficiale attraverso un’informativa urgente alla Camera. «Venga a spiegare al parlamento italiano ciò che il suo partito non ha avuto il coraggio di spiegare al parlamento europeo. Quello che è successo è molto grave e molto poco serio», ha dichiarato Giuseppe Provenzano, deputato e responsabili Esteri dem.

Nel governo non ci saranno ricadute dirette, almeno nell’immediato. Salvini ha dato battaglia con la sua aperta ostilità a von der Leyen, contribuendo a radicalizzare la linea di Meloni: era pronto a caricare a testa bassa la sua alleata per un eventuale sostegno di FdI alla presidente della Commissione.

Ora il leader della Lega, di fronte al voto contrario, può limitarsi a rivendicare una maggiore coerenza. Sui social ha rilanciato: «La Lega ha votato no e, insieme ai Patrioti non starà a guardare, difendendo a tutti i costi la sicurezza, il lavoro e l’orgoglio degli italiani».

Non è affatto secondario il fatto che abbia rivendicato che faccia parte del «terzo gruppo all’Europarlamento». Tradotto: i patrioti sono più consistenti numericamente dei Conservatori (Ecr) di Meloni.

Insomma, il posizionamento di FdI non ha placato gli assalti leghisti, che sul contrasto alle politiche europee vogliono basare le scelte politiche e di comunicazione per i prossimi mesi. Meloni ha preferito non inasprire i rapporti con l’alleato di governo invece di ritagliarsi una collocazione europea di maggiore peso.

Occhiate a Trump

Un percorso che sembra addirittura condurre verso una trumpizzazione di Fratelli d’Italia. Nella batteria di dichiarazioni post voto in Europa, non è passato inosservato l’intervento di Alfredo Antoniozzi, vicecapogruppo meloniano alla Camera: «Il voto che può cambiare gli equilibri del mondo e portare alla pace sarà quello del 5 novembre».

L’unico cambiamento può avvenire in caso di vittoria di Trump. Da Forza Italia, però, è arrivata una stilettata, seppure non diretta: «Grazie a noi l’Italia conta in Europa».

Tajani ha aggiunto: «Ci sono delle forze politiche che, in totale contrasto con quello che pensa la maggioranza dei parlamentari, sono politicamente ininfluenti». A qualcuno saranno fischiate le orecchie.

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