La Corte costituzionale ha dichiarato illegittima la norma con cui, nel maggio 2023, il governo fece decadere Stéphane Lissner dal ruolo di sovrintendente del teatro San Carlo di Napoli affinché potesse subentrargli Carlo Fuortes. La sentenza è rilevante non solo sul piano giuridico, perché prova ad arginare un certo malvezzo normativo, ma anche su quello politico, poiché rende palese la forzatura operata dall’attuale governo.
Ci sono metodi più o meno commendevoli con cui un esecutivo può attribuire incarichi pubblici a persone di proprio gradimento. Ad esempio, nel maggio 2023, il governo varò una norma che faceva decadere Stéphane Lissner dal ruolo di sovrintendente del teatro San Carlo di Napoli, con l’intento non troppo occulto che gli subentrasse Carlo Fuortes, così che restasse libera la poltrona di amministratore delegato della Rai (poi attribuita dal governo a Roberto Sergio).
Su queste pagine esprimemmo dubbi circa la legittimità della norma. Qualche giorno fa, la Consulta ne ha riconosciuto l’incostituzionalità. La sentenza è rilevante non solo sul piano giuridico, perché stigmatizza un malvezzo normativo, ma anche su quello politico, poiché rende palese la forzatura operata dall’attuale esecutivo.
I fatti
La norma, inserita nel decreto-legge enti pubblici (n. 51 del 2023), prevedeva l’immediata cessazione dalla carica per i sovrintendenti delle fondazioni lirico-sinfoniche che, alla data di entrata in vigore del decreto, avessero compiuto il settantesimo anno di età, indipendentemente dalla scadenza degli eventuali contratti in corso. Di fatto, la norma si applicava esclusivamente a Lissner, unico a trovarsi nelle condizioni previste.
Il tribunale di Napoli, a cui Lissner si era rivolto, ne aveva ordinato l’immediato reintegro nell’incarico, che nel mentre era stato assegnato a Fuortes. Contro la decisione aveva fatto ricorso la fondazione Teatro San Carlo. Il tribunale, nel valutare tale reclamo, aveva sollevato la questione di legittimità costituzionale circa la norma in questione, sospendendo ogni atto relativo al mandato di Lissner «fino alla definizione del giudizio di costituzionalità».
Necessità e urgenza
Né dal testo della norma né dai lavori preparatori – afferma la Consulta – si evince la sussistenza dei requisiti di necessità e di urgenza che giustificano il ricorso al decreto-legge (art. 77 Cost.). Il governo non può dare un’interpretazione di tali requisiti talmente ampia «da sostituire sistematicamente il procedimento legislativo parlamentare con il meccanismo della successione del decreto-legge e della legge di conversione». In questo modo, infatti, l’esecutivo vanifica il «ruolo politico e legislativo del Parlamento, che resta la sede della rappresentanza della Nazione (art. 67 Cost.)».
Nemmeno la finalità enunciata nel preambolo della disposizione sulla decadenza dall’incarico, vale a dire «la necessità di salvaguardare l’efficienza delle fondazioni lirico-sinfoniche», rappresenta una valida motivazione per l’uso della decretazione d’urgenza.
In altre parole, l’unica urgenza dell’esecutivo appariva quella di liberare la poltrona di Lissner, ma a fini normativi era priva di rilevanza.
La norma “intrusa”
C’è un ulteriore «indice sintomatico della manifesta carenza del requisito della straordinarietà del caso di necessità e di urgenza», aggiungono i giudici costituzionali: è la «evidente estraneità della norma censurata rispetto alla materia disciplinata da altre disposizioni del decreto-legge in cui è inserita». Una “norma intrusa”, la definisce la Corte.
La legge (n. 400/1988) dispone, infatti, che i decreti-legge abbiano un contenuto specifico, omogeneo e corrispondente al titolo. In caso di inosservanza di tali condizioni di validità – dicono i giudici – il decreto diviene un provvedimento in cui si trasfondono «le norme più disparate, confidando nel fatto che la legge di conversione ne consolidi l’efficacia». E ciò dà luogo a un «legiferare caotico e disorganico che pregiudica la certezza del diritto» e nuoce «sia all’effettivo godimento dei diritti che all’ordinato sviluppo dell’economia». Nel caso in esame, l’esecutivo di Giorgia Meloni ha attuato proprio questo modo di legiferare.
La mancanza del requisito dell’omogeneità, oltre a quello della necessità e urgenza, era stata già più volte rilevata dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Ora analoghi rilievi della Corte costituzionale hanno portato all’illegittimità di una disposizione, oltre a fare luce su un certo metodo normativo e operativo dell’esecutivo.
A proposito di metodo, qualche giorno fa Giorgia Meloni, scrivendo a Ursula Von der Leyen in tema di libertà d’informazione, ha sostenuto che da parte del governo non c’è stata alcuna ingerenza nella governance della Rai, salvo la «nomina obbligata di un nuovo Amministratore Delegato nel 2023 a seguito delle dimissioni del suo predecessore». Peccato che Meloni non abbia raccontato la vicenda per intero, e soprattutto che abbia omesso di citare la pronuncia della Corte costituzionale.
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