Grande è la confusione sotto il cielo della destra. Mentre le cronache approfondiscono i dettagli dei femminicidi di Ilaria Sula e Sara Campanella, le ultime due giovani vittime della strage quasi quotidiana di donne, il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha parlato alla stampa di limiti dell’intervento penale, di educazione necessaria da parte delle famiglie, e di «etnie» che non rispettano le donne.

Il numero di errori e contraddizioni contenute in poche frasi è tale da meritare un’analisi specifica. Ma prima facciamo un passo indietro. A quando, nemmeno un mese fa, in occasione dell’8 marzo, il governo ha presentato un disegno per introdurre il reato di femminicidio, da punire con la pena dell’ergastolo.

Giuriste esperte della materia, tra cui Vitalba Azzollini su Domani, avevano evidenziato già allora i limiti della misura, esprimendo scetticismo sull’efficacia di interventi repressivi e tecnicismi giuridici – non è la codificazione autonoma di un reato o l’aumento della pena a dissuadere gli autori di violenze letali contro le donne dal commetterle –, e denunciando l’assenza di impegno sul fronte della prevenzione, innanzitutto sul versante dell’educazione e della sensibilizzazione.

Di fronte a uccisioni che si ripetono con ritmo inesorabile, e dinamiche tragicamente ripetitive, la ministra Eugenia Roccella ha tuttavia ribadito in questi giorni l’importanza di una simile iniziativa, invitando anzi le opposizioni ad approvare al più presto la legge. Nessuna parola, ancora una volta, sull’educazione all’affettività, alla parità di genere, alla sessualità.

L’approccio repressivo

Torniamo ora a Nordio, che nel suo breve intervento ha, di fatto, denunciato il fallimento dell’approccio repressivo: «È illusorio che l'intervento penale, che già esiste e deve essere mantenuto per affermare l’autorità dello stato, possa risolvere la situazione». Non ne è seguito però l’auspicio né l’impegno per un intervento preventivo attraverso l’educazione sessuo-affettiva a scuola.

Al contrario, applicando una logica di sapore lombrosiano, Nordio si è detto sfiduciato nella possibilità di interrompere la sequenza di morti di donne perché esistono culture, etnie (ma forse voleva dire «razze»), refrattarie alla civilizzazione. Simili eventi, ha detto, «si radicano probabilmente nell’assoluta mancanza non solo di educazione civica ma anche di rispetto verso le persone, soprattutto per quanto riguarda giovani e adulti di etnie che magari non hanno la nostra sensibilità verso le donne».

Ci ricorda qualcosa? Senza andare troppo lontano, un altro ministro del governo Meloni, Giuseppe Valditara, in occasione della presentazione della Fondazione Giulia Cecchettin, aveva negato il peso della cultura patriarcale, imputando piuttosto il fenomeno della violenza alle «forme di marginalità e di devianza in qualche modo discendenti dall’immigrazione illegale».

Né allora, né oggi, la cronaca poteva suggerire la rilevanza del dato etnico o culturale, meno che mai quello dello status legale. Gli assassini di Giulia Cecchettin, Ilaria Sula, Sara Campanella appartengono al tipo di giovani uomini che i vicini di casa definiscono ragazzi «normali»: studenti, dalla faccia pulita.

E allora il problema è più grave di quanto vogliono far credere i politici che lo strumentalizzano per colpire l’immigrazione e i diritti degli “altri”. Come si legge nell’indagine dell’Istat sul fenomeno, «se è vero che ci sono culture o subculture in cui il dominio dell’uomo sulla donna è considerato più accettabile e quindi le violenze sono più frequenti, è altrettanto vero che l’identikit dell’uomo violento corrisponde al “signor qualunque”: disoccupato, operaio, impiegato, professore, poliziotto, medico...».

Sfidando ogni evidenza contraria, dunque, Nordio attribuisce il fallimento dei molto sbandierati provvedimenti repressivi alla mancanza di educazione al rispetto delle donne tra uomini che appartengono a gruppi minoritari. Ma (contraddicendo sé stesso) aggiunge anche un passaggio sulla necessità di uno sforzo educativo generale. Da parte della scuola pubblica? Ovviamente no. Il ministro chiama in causa la famiglia: serve, ha detto, «un’attività a 360 gradi, educativa, soprattutto nell'ambito delle famiglie dove si forma il software del bambino».

La famiglia, quella tradizionale s’intende, è chiamata a risolvere un problema che la politica non vuole né sa affrontare. Rimuovendo l’elemento di consapevolezza da cui partire: che è nella cultura dei rapporti tra i generi che plasma i modelli gerarchici di famiglia – una cultura trasversale a gruppi e provenienze nazionali – la radice profonda delle uccisioni di donne.

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