Sparare sulla sanità è oramai un gioco tanto comune che viene voglia di farsi notare astenendosi. Mancano medici e infermieri che, sovraccarichi di lavoro e sottopagati, fuggono dagli ospedali pubblici non appena ne hanno l’occasione.

pronto soccorso traboccano di malati in attesa di un posto letto. Le liste d’attesa per qualsiasi esame di complessità superiore ad un prelievo di sangue o a una radiografia del torace hanno raggiunto tempi allo stesso momento epocali e ridicoli (che senso ha fare un elettrocardiogramma fra due mesi se è oggi che ho un’aritmia o il fiato corto?). La sanità privata sguazza in mezzo a queste macerie e gli italiani sborsano oramai più di 30 miliardi all’anno per sopperire ai buchi del servizio pubblico. Per questi motivi 15 dicembre migliaia di medici e diverse sigle sindacali manifestano a favore della sanità pubblica e per il miglioramento delle loro condizioni di lavoro.

Avendo dedicato più volte spazio a questi temi, mi sento autorizzato a proporre oggi uno sguardo in qualche modo “laterale” (più elevato?) ai problemi della salute, ragionando brevemente sulla prevenzione, sulla salute come consumo e sulla corretta allocazione delle risorse.

I numeri della prevenzione

LaPresse

Se dire che il fumo aumenta il rischio di tumori e di malattie cardiovascolari non fa sobbalzare più nessuno sulla sedia, forse non tutti sanno che la vita dei fumatori abituali dura in media 10-12 anni meno di quella dei non fumatori.

Oggi, calcolando insieme gli uomini e le donne (notoriamente più longeve), l’attesa di vita media degli italiani è di circa 82 anni, ma quella di chi fuma abitualmente è di soli 70 anni. In Italia, il ministero della salute stima che siano attribuibili al fumo di tabacco oltre 93.000 morti all’anno (il 20,6 per cento di tutte le morti tra gli uomini e il 7,9 per cento di tutte le morti tra le donne) con costi diretti e indiretti pari a oltre 26 miliardi di euro.

Se è vero che non siamo gli ultimi in Europa per quanto riguarda il fumo (siamo diciannovesimi nella lista dei virtuosi…), è altrettanto vero che in Italia i fumatori sono il 16.5 per cento della popolazione con età maggiore di 15 anni (22,3 per cento tra i maschi) mentre in Svezia sono solo il 6,5 per cento. Forse non è un caso se l’attesa di vita sana è di 73 anni in Svezia e di soli 67 in Italia.

Due parole anche sull’obesità, che è un fattore di rischio non solo per le malattie cardiovascolari, ma anche per diversi tumori ( tra i quali quello della mammella). I dati riportati sul sito dell’Istituto superiore di sanità stimano che in Italia, all’età di 11 anni, circa il 35 per cento dei maschi e il 23 per cento delle femmine siano in sovrappeso se non francamente obesi. Circa il doppio di quanto avviene in Olanda e in Danimarca.

Potremmo proseguire a lungo, ma il messaggio dovrebbe già essere chiaro: la prevenzione primaria (fumo, alcol, alimentazione e attività fisica, solo per cominciare) se sostenuta e attuata capillarmente avrebbe un enorme impatto sulla morbidità, sulla mortalità e sulla spesa sanitaria.

Ma quanta ne avete ricevuta, o quanta ne fanno la scuola, la Tv e i social ai vostri figli? Quanto ci hanno investito i precedenti governi e quanto ci investirà quello attuale?

La salute come consumo

I medici hanno sempre meno tempo da dedicare ai loro pazienti, eppure il tempo sarebbe la cosa più importante per la loro salute. Offrire tempo significa ascoltare, individuare i bisogni e le preoccupazioni, rassicurare, offrire suggerimenti e valutarne con regolarità l’efficacia.

Più tempo il medico dedica al proprio paziente, più corretto ed efficace è il rapporto di cura. Il numero di esami e di consulenze specialistiche è inversamente proporzionale al tempo dedicato dal medico. Il paziente inascoltato è insoddisfatto e cerca rassicurazione negli esami e nella consulenza di altri specialisti. Questo accrescerà il numero degli esami (spesso non appropriati e la spesa sanitaria).

Ma l’ascolto è faticoso, costoso (perché richiede un numero di medici minimamente adeguato) e poco redditizio. Gli esami invece, se pure rappresentano un costo per lo stato, sono invece una merce di facile consumo e un volano di crescita per le industrie del settore.

Qui, finalmente, ci avviciniamo ad un preoccupante primato: secondo i dati Eurostat l’Italia è il quinto paese in Europa per numero di tac e il terzo per risonanze magnetiche in rapporto al numero di abitanti. In compenso, l’impiego diretto dell’ecografia da parte dei medici non radiologi, che è diventato quasi la regola negli ospedali italiani, resta un miraggio nell’ambito della medicina generale, dove potrebbe avere un enorme impatto in termini di beneficio-costo, permettendo diagnosi immediate e riducendo tempi d’attesa e ritardi terapeutici.

Come spendere

Questo punto è di sicuro il più importante e allo stesso tempo il più controverso perché richiede di affrontare scelte di valore etico oltre che di carattere economico e amministrativo. L’esempio che più spesso viene citato è quello della terapia oncologica.

Senza entrare troppo nello specifico, né fare gli esempi più eclatanti, possiamo accettare la stima che un anno di terapia farmacologica antitumorale costi oggi circa 100mila euro. È un costo certamente elevato, ma molti potrebbero pensare che sia accettabile per combattere contro malattie così temibili.

Se però si guarda al rapporto tra costi e benefici, il quadro si fa più fosco. Considerando 71 farmaci commercializzati negli Stati Uniti tra il 2002 e il 2014, si è stimato che in media siano stati in grado di prolungare la vita dei pazienti con tumori solidi (come quelli del polmone o della mammella) di circa due mesi. Usando un criterio molto diffuso per questo genere di valutazioni, il Qaly (anno di vita ponderato per la qualità) si è anche valutato che i nuovi anticorpi monoclonali impiegati per la cura dei tumori possono costare tra i 400mila e i 900mila euro per ogni Qaly guadagnato. Sono cifre insostenibili per qualunque sistema sanitario.

Il messaggio non vuole essere, almeno in questo contesto, che è necessario ripensare al trattamento dei tumori in fase avanzata, ma invece che, a risorse limitate, la scelta di investire in uno specifico settore della medicina significa inevitabilmente disinvestire da un altro. Non è solo una questione di capacità organizzativa e di prospettiva politica dunque, se i posti letto negli ospedali sono insufficienti, se gli stipendi dei medici e degli infermieri sono tra i più bassi in Europa, se il livello dell’assistenza territoriale è gravemente inadeguato.

La mancanza di risorse economiche che hanno costretto a queste scelte dipende anche (non solo) da una cultura, diffusa tra i cittadini come tra i medici e i politici, che vede l’alta specializzazione e l’impiego di tecnologie avanzate come una frontiera da difendere anche a scapito del buon funzionamento della medicina di base, nelle sue articolazioni territoriali e ospedaliere. Non è detto che non si possa cercare di salvare capra e cavoli, ma questo richiederà di fare scelte estremamente oculate e spesso controverse per quello che riguarda l’allocazione delle risorse.

Da domani ricominceremo a denunciare, giustamente, i ritardi e le inefficienze del nostro Servizio sanitario nazionale. Se però vogliamo spingere lo sguardo un po’ più in là, non possiamo fare a meno di confrontarci con i grandi interrogativi che una medicina sempre più tecnologica e sempre più costosa ci pone. Se si faranno le scelte sbagliate scivoleremo, ancora più di quanto già non sia, verso una medicina a due livelli: l’eccellenza per i più ricchi, una stagnante mediocrità per tutti gli altri.

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