La strada di Giorgia Meloni è sempre più stretta, ma tornare indietro è impossibile. Anche se non ufficialmente, è abbastanza certo che la premier sarà a Washington il 16 aprile per incontrare Donald Trump: per dimostrare che effettivamente gode ancora del favore della Casa Bianca e sondare l’umore del presidente sui dazi che stanno facendo ballare i mercati mondiali.

Più che un successo, si tratta di un modo per non perdere il passo degli altri grandi leader europei – Emmanuel Macron e Keir Starmer hanno già avuto un colloquio – anche se la conclusione rischia di essere politicamente poco significativa, se non in termini di un generico attestato di stima da parte del tycoon.

Del resto il momento è delicatissimo: l’incontro si svolgerà all’indomani dei possibili controdazi che l’Ue dovrebbe introdurre a partire dal 15 aprile. Per questo la premier ha poca libertà di manovra e, come non si stancano di ripetere gli alleati di Forza Italia, «le trattative in materia di commercio internazionale spettano all’Ue».

Lo ha spiegato anche la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen: l’unico legittimato a trattare sui dazi è il commissario europeo al Commercio, lo slovacco Maros Sefcovic. Del resto sulla lavagna di Trump compariva solo la generica dicitura «Europe» accanto alla percentuale del 20 per cento e il presidente non ha mai considerato l’Unione europea un insieme di stati distinti tra loro.

Pericoloso, dunque, sarebbe un qualsiasi tentativo di fuga in avanti di Meloni per negoziare condizioni migliori per le aziende italiane: oltre che infruttuoso, rischierebbe di metterla anche contro i vertici europei che hanno detto a chiare lettere che l’Ue non può dividersi davanti a questa guerra commerciale.

Ecco perché, secondo quanto trapela da fonti vicine a palazzo Chigi, la premier punterebbe a contrattare un affievolimento dei dazi per il settore agroalimentare europeo e italiano. In questo modo farebbe gli interessi nazionali, visto che si tratta del settore maggiormente in fibrillazione, ma senza fare un torto ai vicini. Il risultato, tuttavia, è estremamente complicato da raggiungere, anche in considerazione dell’imprevedibilità di Trump, che ha fatto capire all’Ue di essere disposto a un confronto solo se sul tavolo verrà messa una contropartita economica.

Il piano italiano

Nel frattempo, dentro il governo l’imperativo è dare l’impressione di avere un piano per far fronte ai dazi. La situazione economica dell’Italia non le permette contromisure a tutela delle imprese come quelle da 14 miliardi già messe in campo dalla Spagna, ma il mantra tra i ministri e quello di spiegare come i dazi non li abbiano colti alla sprovvista.

Lo ha spiegato il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, che ha parlato di un rafforzato ruolo di Poste italiane sul fronte della logistica e di un allargamento della partnership con la Cina. Ciò che invece non è stato altrettanto pubblicizzato è stato il piano export, contenuto in un documento del ministero degli Esteri, in cui si legge che «a fronte dell’annuncio di dazi, occorre rafforzare ulteriormente i rapporti economici con gli Stati Uniti, anche in un’ottica di riequilibrio del surplus della bilancia commerciale: è possibile una strategia transattiva con accordi su gas e difesa, anche sotto il profilo degli acquisti».

In altre parole, secondo la Farnesina, la risposta per impedire che le imprese italiane escano dal mercato statunitense dovrebbe essere quella di importare dagli Usa armi e gas naturale liquefatto.

Intanto oggi il governo incontrerà le categorie produttive colpite, per fare il punto sulle aspettative, quantificare i danni e ipotizzare le contromisure. Tutto all’insegna del ritornello «manteniamo la calma». Lo ha ripetuto Tajani: «La Commissione europea è contraria all’escalation» e «la guerra commerciale è una gigantesca sciocchezza». Eppure, gli effetti già iniziano a sentirsi, come hanno fatto presente questo fine settimana le imprese presenti al Vinitaly.

Le divisioni nel governo

Intanto la situazione è rovente anche in Italia. Il congresso leghista ha dato alla premier più di un grattacapo, con il vicepremier Matteo Salvini galvanizzato dagli applausi che ha fatto arrivare un messaggio chiaro: la Lega è l’ago della bilancia nell’esecutivo, per questo chiede di tenere la guida di tutte le regioni del Nord, a cominciare dal Veneto, e soprattutto un ritorno al Viminale per il suo leader.

L’ipotesi, per ora, è fuori dall’agenda di palazzo Chigi e ha incassato il no di Forza Italia. Tuttavia l’elenco di richieste così esplicite dà la dimensione di come la competizione interna alla maggioranza sia più accesa che mai.

Mentre Meloni e Tajani lavorano sull’asse di Bruxelles, la Lega è tornata più di lotta che di governo, ribadendo il suo no al riarmo e mantenendo posizioni ultra-trumpiste e di opposizione alla linea europea di von der Leyen.

Il messaggio è sempre lo stesso: i veri dazi sono quelli imposti dall’Unione europea. Su questo, pur con toni per forza di cose differenti, anche Meloni si sta muovendo e lo stesso Tajani ha detto che è in corso un lavoro per «abbattere le barriere extradoganali nel mercato unico» e «aiutare la competitività del nostro sistema. Attraverso la riduzione di burocrazia e di regole si può ridurre l’effetto danno dei dazi».

La sintesi è quella di una Meloni attendista, decisa a frenare chi chiede una risposta dura dell’Ue e convinta che la situazione si sbloccherà da sé. Oggi però toccherà con mano la preoccupazione del comparto produttivo e questo potrebbe imprimere una diversa traiettoria alle scelte dei prossimi giorni.

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