- I dubbi esistenziali del Partito democratico hanno un qualcosa di amletico. Ma a differenza del protagonista della tragedia di Shakespeare i dem non hanno mai avuto l’attitudine a ragionare su sé stessi
- C’è da sperare che il partito attinga dal furore di Amleto la lucidità piuttosto che l’incertezza, la convinzione più che l’esitazione
- Questo articolo si trova sull’ultimo numero di POLITICA – il mensile a cura di Marco Damilano. Per leggerlo abbonati o compra una copia in edicola
C’è qualcosa di amletico nell’interrogarsi congressuale del Partito democratico. Un dubbio esistenziale che costringe a farsi domande sul senso di sé stessi, dell’esserci, dello stare assieme. Domande affacciate perfino sul baratro del non essere. Un’incertezza così profonda da aver bisogno appunto di un congresso che duri addirittura qualche mese e da autorizzare il dubbio – altro dubbio – che forse neanche tutti quei mesi infine basteranno.
Lucida pazzia
Si vedrà. A consolazione del Pd si potrebbe citare la circostanza che Amleto, in realtà, era assai poco amletico. Infatti, nell’ordine, egli si avventura a parlare nottetempo con lo spettro di suo padre, corteggia Ofelia, si finge pazzo, architetta un piano per smascherare il re usurpatore, lo sorprende mentre sta pregando e lucidamente aspetta il momento più propizio per vendicarsi di lui, uccide Polonio e ne occulta il cadavere, si sbarazza redigendo una lettera falsa di quei due ceffi, Rosencranz e Guildenstern che dovrebbero essere i suoi sicari, ritorna a corte, sfida Laerte, e infine uccide il re infilzandolo con la spada avvelenata che era destinata a lui.
Solo a quel punto, muore lui stesso, affidando però al fido Orazio il compito di raccontare le sue gesta. La sua “pazzia”, insomma, è lucida, tenuta sempre rigorosamente sotto controllo. A dispetto della vulgata Amleto consuma con calma strategica quella che chiama, quasi compiaciuto, «la mia lenta vendetta».
Ora al Pd non si rimproverano delitti. E forse anche gli errori che ha commesso e da cui non riesce più a districarsi sembrano figli più di un difetto che di un eccesso. Il difetto di una identità irrisolta, che pretendeva di mettere insieme gli eredi del Fanfani antidivorzista e quelli dell’Ingrao movimentista, cercando di conciliarli con reciproca pazienza, mutua indulgenza e più di qualche margine di ambiguità. E non riuscendoci mai più di tanto, peraltro.
Semmai quello che è mancato al Pd è stata proprio l’introversione, l’attitudine a ragionare con sé stessi sul senso profondo e ultimo delle cose. Quell’attitudine di cui Amleto è ricco, forse fin troppo. Priva però, nel caso del Nazareno, della stessa determinazione messa in mostra in quel di Danimarca.
Il rapporto con il padre
Il fatto è che il tema di Amleto è la paternità, il legame con un padre che è stato vittima di un assassinio e che torna al figlio sotto forma di fantasma. Un padre che chiede vendetta, chiede verità, chiede memoria. Mentre il tema del Pd sembrava essere piuttosto quello della sua emancipazione dai propri padri. Tutti venerati, Moro e Berlinguer, soprattutto. A patto di non diventare troppo esigenti. Così da non privare mai i loro successori dall’ebbrezza di essersi spinti oltre, laddove forse gli antenati non avrebbero consigliato di spingersi. Chissà.
Quel legame mai del tutto elaborato tra padri e figli di quelle casate iscritte tutte d’ufficio ai nobili ranghi del riformismo italiano è rimasto così come un punto in sospeso dell’album di famiglia democratico. Fino a farne il partito “ipotetico” che diceva profeticamente Edmondo Berselli. E di lì in poi, proseguendo lungo quella rotta, arrivando a scoprire che l’ampiezza del perimetro tracciato si era allargata a spese della profondità delle sue coltivazioni.
Di fretta
E qui il tempo scava un’altra differenza. Infatti, a dispetto di questi mesi (non pochi) dedicati a cercare una via di uscita e un nuovo leader, il Partito democratico sembra sempre vittima di una certa fretta, quasi una sorta di concitazione. La cronaca di questi giorni evoca appunto il ritratto di un partito trafelato, che sembra correre anche quando sta fermo e che insegue il tempo anche quando rischia di non averne più. Così, la differenza con il povero Amleto si fa ancora più stridente. Dato che il principe di Danimarca sa aspettare, e per quanto senta il dovere di compiere l’opera della sua vendetta impara presto a centellinarla con una sagacia politica che non ci si aspetterebbe dalla sua giovane età.
Il fatto è che Amleto è chiamato a riscattare un torto. Mentre il Pd si sentiva chiamato piuttosto a consolidare molte (troppe ?) ragioni. Così, l’uno combatte per così dire in trasferta, cercando di rimediare lo svantaggio assegnato alla vittima. Mentre i secondi pensavano di giocare in casa, accarezzati dai favori del pronostico e dalla nobiltà dei loro antenati. E ora subiscono una ingiusta legge del contrappasso. Quella che induceva il vecchio e terribile Mao a suggerire spietatamente: bastona il cane che affoga.
Tant’è che oggi sono gli ex segretari e gli ex leader a voler consumare la loro vendetta, dichiarandosi loro stessi vittime di un tradimento e offrendo al loro partito di una volta improbabili vie d’uscite che somigliano a rese senza condizioni. L’equivalente della rivalsa che Amleto coltivava verso l’assassino di suo padre, e che alcuni dei padri del Pd si avviano ora a celebrare (o almeno a tentare di celebrare) verso i figli rimasti a guardia del loro palazzo di un tempo.
In realtà un certo grado di sofferenza c’è ovunque. E anche di ambiguità, però. Amleto infatti si fa forte di quella doppiezza che nessuna politica può mai ignorare del tutto. «Debbo essere crudele solo per essere buono», proclama con discreta indulgenza per se stesso. Mentre il Pd ormai viene considerato crudele perfino quando si rivela troppo buono, e si trova semmai oggi a pagare certi eccessi di compiacenza rivolti soprattutto a favore dei suoi alleati o supposti tali.
Amletica convinzione
Resta il fatto che la crisi del più grande partito di opposizione (un valore, anche questo) non è mai solo cosa loro, o cosa nostra. Per ricorrere ancora una volta alla fantasia di Shakespeare viene da dire che «quando una maestà finisce non muore sola, ma è un gorgo che porta tutto con sé», dato che «non vi fu mai un sospiro di re che non si mutasse in lamento dell’universale».
Così oggi c’è quasi da sperare che il Pd attinga dal furore di Amleto la lucidità piuttosto che l’incertezza, la convinzione più che l’esitazione. Dato appunto che Amleto non fu mai, neppure lui, così amletico come ai posteri, poi, è piaciuto raccontarlo.
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