Con le nuove regole europee il governo Meloni non avrà margini per fare deficit come nell’ultima manovra. Giorgetti ha promesso il rifinanziamento del taglio del cuneo fiscale, sulle pensioni non c’è spazio di intervento
Se l’estate è calda meteorologicamente, come ogni italiano sta sperimentando sulla propria pelle, l’autunno si preannuncia bollente, almeno al ministero dell’Economia e delle finanze e di rimando a palazzo Chigi. A via XX Settembre, sede del Mef, c’è la piena consapevolezza della complessità della prossima manovra.
I temi in agenda sono tanti: dal taglio al cuneo fiscale agli investimenti in sanità, passando per il sostegno alle imprese, alla transizione ecologica. Fino al totem delle pensioni. E con una new entry: l’aumento della spesa militare per raggiungere il 2 per cento del Pil chiesto ai paesi membri della Nato.
Giancarlo Giorgetti ha già tanti grattacapi e, da come si è espresso, non sembra molto convinto di assecondare la richiesta: «Da una sommaria analisi di quello che viene contabilizzato come spesa per la difesa da altri partner europei, abbiamo scoperto che il concetto vada ricalibrato. Alcune spese (militari, ndr), che in questo momento non sono considerate tali, potrebbero esserlo in un ragionamento complessivo», ha detto alla Camera. Dunque, la quota potrebbe salire fino al 2 per cento, inserendo delle voci che oggi non sono considerate nell’ambito della spesa militare. Un gioco contabile o poco più.
Impressioni di settembre
Il clima è rovente, comunque. Una battuta riporta, seppure con ironia, il sentiment: «Meglio fare il portiere che ministro», come ha detto Giorgetti alla fine della partita del cuore, giocata martedì all’Aquila. Altro che calci di rigori, tirati dalla nazionale cantanti nel match organizzato per beneficenza, il rigore chiesto da Bruxelles è il vero cruccio del ministro dell’Economia. Ed è indicativo il suo british humour per snocciolare le preoccupazioni quotidiane e future.
La certezza scolpita nella pietra dei conti pubblici è che i soldi sono pochi. L’Eurogruppo di inizio settimana ha chiarito: «Bisogna perseguire politiche restrittive». Tradotto: sarà una manovra all’insegna della prudenza, occorre il bilancino. Non lacrime e sangue, ma quasi. E c’è per questo la tentazione di fare il bis della strategia politica degli “emendamenti zero”, già attuata lo scorso anno, quando i parlamentari di maggioranza non hanno potuto presentare le proposte al testo predisposto dal governo.
Fatto sta che da qui al 20 settembre sarà tutta una rincorsa ai numeri, al reperimento di qualche fondo, all’esame ai raggi X dei conti italiani. Entro quella data, infatti, occorre arrivare alla definizione del piano strutturale di bilancio che, come anticipato da Giorgetti, sarà sottoposto al voto parlamentare. Quel documento sarà l’ossatura della prossima manovra economica, la prima con la nuova governance sulla stabilità dei conti. E anche con una nuova Commissione europea.
I costi di una manovra
I numeri, prima di tutto. La sola conferma delle misure inserite per l’anno in corso, un’ipotetica finanziaria fotocopia, costa all’incirca 20 miliardi di euro. Ma è un esercizio di stile: le richieste dei partiti di maggioranza sono sempre costose e ogni leader non vorrà limitarsi a riproporre l’esistente. Così dopo la pausa agostana, si definiranno gli elementi-chiave, a cominciare dai saldi della finanziaria. La promessa granitica è il rifinanziamento del taglio al cuneo fiscale.
Ed è una storia nota: ci vogliono almeno 10-12 miliardi di euro per rinnovare una misura esistente. Ma il ministro dell’Economia ci ha messo la faccia, in più di un’occasione. «È la priorità e sarà assolutamente confermato», ha ripetuto Giorgetti di recente alla Camera. C’è tuttavia un problema: con le nuove regole del patto di Stabilità arriva lo stop alle spese in deficit per finanziare gli interventi. Lo scorso anno la manovra è stata sostenuta per buona parte proprio muovendo la leva del deficit. E si torna alla domanda di partenza: dove saranno reperite le risorse per confermare lo sgravio sugli stipendi dei lavoratori? «Quando avremo i saldi avremo uno scenario più chiaro», è la posizione ribadita dal Mef, molto abbottonato sul punto.
Il sottosegretario all’Economia e braccio operativo di Giorgetti, Federico Freni, ha garantito in un’intervista a Repubblica: «Il bilancio dello stato consente di agire su alcune leve, come quella della spesa, in modo fluido». Un teaser, comunque, c’è nel ragionamento di Freni: stop alle misure che non impattano sulla crescita. A lui spetterà il delicato compito di fare da cacciatore delle risorse, sviscerare i rivoli del bilancio per mettere i soldi laddove sono necessari, come il rinnovo del taglio al costo del lavoro. E al contrario toglierli da capitoli ritenuti superflui, missione non agevole, perché si annusa l’aria di possibili tagli agli enti locali. L’orientamento di Giorgetti sul punto è emerso sul Pnrr: i comuni hanno avuto molto dal Pnrr. Ora basta.
Condoni e pensioni
Tra le pieghe del bilancio si punterà sugli introiti una tantum, piccoli condoni che portano in dote un gruzzoletto prezioso di questi tempi. Si sta valutando una possibile e ulteriore rottamazione di cartelle, magari allargando le maglie rispetto all’ultima occasione. Si vocifera di una rottamazione quinquies. L’unico modo per raggranellare a buon mercato qualche miliardo di euro.
La cautela tocca i massimi livelli sul tema dei temi, quello che toglie il sonno a ogni ministro dell’Economia: le pensioni. Una questione ancora più scottante nell’epoca del governo Meloni, che aveva promesso mari e monti sulla previdenza. Giorgetti ha fatto ricorso al burocratese, quasi in un linguaggio da Prima Repubblica, per esprimersi sulla materia.
Le misure «dovranno essere valutate all’interno e in modo coerente alla sostenibilità complessiva della finanza pubblica, in questo quadro», ha detto alla Camera, rispondendo a un question time, presentato da Luigi Marattin, deputato di Italia viva. In controluce, però, si legge lo stop del ministro dell’Economia alle ambizioni di Matteo Salvini e quindi della sua Lega. «Nessun sistema pensionistico è sostenibile in un quadro demografico come quello attuale», ha ricordato Giorgetti. Un concetto già espresso in passato, che spegne qualsiasi slancio rivoluzionario.
Da quanto apprende Domani sono in fase di valutazione varie opzioni per garantire una maggiore flessibilità in uscita, una serie di leve per garantire alcune fasce di lavoratori.
«Nella migliore delle ipotesi, si può confermare l’attuale impianto di norme, magari con qualche correttivo», spiega una fonte parlamentare di maggioranza interessata al dossier. Un punto sembra chiaro: Quota 41, ossia la possibilità di andare in pensione con 41 anni di contributi indipendentemente dall’età – resta un sogno nel cassetto di Salvini. L’odiata legge Fornero resterà la stella polare per andare in pensione.
Lo stesso sottosegretario al Lavoro e fedelissimo del leader leghista, Claudio Durigon, si è limitato a parlare del «secondo pilastro» del sistema previdenziale, la contribuzione integrativa. Inevitabile la replica delle opposizioni: proprio Marattin, sentinella dell’opposizione sul dossier, ha chiesto al ministro di dire a Salvini di evitare la propaganda che troppo spesso si lancia in mirabolanti, quanto inattuabili, promesse.
Un altro campo su cui il Mef prepara la prossima partita è quella della sanità. Il Pd di Elly Schlein ne ha fatto un punto identitario. E nella prossima legge di Bilancio rilancerà la sfida a ogni curva: la segretaria dem ha depositato una proposta di legge per aumentare l’investimento in sanità, pur sapendo di trovare un muro.
Giorgetti ha il compito di elargire un po’ di risorse per consentire a Meloni di continuare a dire che il suo governo è quello che spende di più in sanità. Perché, seppure con pochi soldi, la manovra deve essere buona per fare un po’ di propaganda.
© Riproduzione riservata