A parlamento chiuso gli strateghi dei regolamenti lavorano, calcolano e riflettono. Appena le camere riapriranno, andrà fissato il calendario dei lavori in relazione alla legge di Bilancio che monopolizzerà i lavori degli ultimi mesi dell’anno. E i due elementi da valutare – tra loro collegati – sono uno parlamentare e l’altro extraparlamentare: da una parte le riforme costituzionali già incardinate, dall’altra tutti i possibili referendum che ne scaturiranno.

Secondo quanto anticipato da Repubblica, la scelta di Fratelli d’Italia è stata quella di invertire i fattori tra premierato e riforma della magistratura. Il primo, dopo un accidentato iter al Senato, è arrivato alla Camera, dove, come la seconda, è stato incardinato in commissione Affari costituzionali.

L’ipotesi iniziale era quella di far proseguire il premierato – «madre di tutte le riforme» per Giorgia Meloni, poi scesa lentamente negli indici di gradimento del governo – invece ora ha guadagnato priorità la riforma del ministro della Giustizia Carlo Nordio.

La legge elettorale

A determinare la scelta avrebbero concorso più fattori. Il premierato presuppone anche una riforma della legge elettorale e ora anche il centrodestra ha preso atto del fatto che le due modifiche debbano correre insieme. La ministra Elisabetta Casellati ha annunciato che la sua bozza di proposta arriverà entro ottobre e le opposizioni hanno fatto sapere di non avere intenzione di discutere ancora di premierato se prima non sarà chiarita la legge elettorale.

Tuttavia il governo non ha ancora davvero fatto chiarezza su quale modello elettorale prediligere e la batosta della destra in Francia ha ulteriormente confuso le idee sul miglior modello da adottare, mostrando i rischi del doppio turno che per un certo periodo era circolato. Non solo, il testo approvato al Senato presenta ancora oggettive incongruenze, prima tra tutte quella sugli italiani all’estero ma anche di costruzione complessiva della riforma, e fonti di Forza Italia non escludono modifiche.

C’è poi una ragione di pura tattica: vista la refrattarietà delle opposizioni, è impossibile che il premierato passi con più dei due terzi dei voti quindi è virtualmente già sottoposto a referendum costituzionale. Ovvero un referendum senza quorum, che nel passato recente è stato la pietra tombale del governo Renzi. Di conseguenza, calcolare quando si celebrerà il voto popolare è di vitale importanza per Meloni. Se inizialmente la premier sembrava prediligere l’idea di farlo svolgere il prima possibile, accelerando con l’approvazione così da non collocarlo in una data vicina alle prossime elezioni politiche.

Ora, invece, l’idea sembra essere di segno opposto: portare il referendum tra la fine del 2026 e l’inizio del 2027, quindi a ridosso della fine naturale dell’attuale governo, se durerà tanto. In questo modo, dunque, il voto non diventerebbe un sondaggio di metà legislatura capace di far traballare l’esecutivo. Non solo, però. Che la riforma costituzionale scricchioli dal punto di vista istituzionale è sentire comune anche tra i ranghi del centrodestra, anche se poche voci – come quella del senatore di FdI Marcello Pera – si sono alzate per ammetterlo. Rischiare di impiccare su questo la legislatura in corso, dunque, è diventato un rischio che il governo non sembra più voler correre.

Inoltre, un altro ragionamento si sta consolidando ormai da settimane. La riforma della magistratura, con la separazione delle carriere e lo spacchettamento del Csm, ha più chance di passare con una maggioranza più ampia di quella che sostiene il governo, perché ha già trovato un sostegno di massima dei centristi. Dunque può essere un buon cuneo per dividere le opposizioni.

I referendum

La partita referendaria, però, è molto più ampia di così e costringe il centrodestra a ragionare a lungo termine. Oltre al referendum costituzionale sul premierato quando (e se) verrà approvato, si dovrà celebrare anche il referendum abrogativo sulla riforma dell’autonomia differenziata targata Calderoli.

Il boom della raccolta firme anche per via digitale e il voto dei cinque consigli regionali mostra chiaramente le intenzioni del centrosinistra, anche se vanno ancora superati alcuni ostacoli formali. Se il referendum costituzionale sul premierato potrebbe celebrarsi a fine 2026, quello abrogativo della riforma Calderoli – secondo le tempistiche previste dalla legge – non potrà avvenire prima della primavera del 2025.

Con una serie di caveat, però. Se i requisiti per la presentazione sono stati raggiunti, un aspetto tecnico ancora incerto è sull’ammissibilità dei quesiti con il vaglio della Cassazione e poi della Consulta. Come ha fatto notare il ministro Calderoli la riforma dell’autonomia è una legge ordinaria collegata alla legge di Bilancio e – secondo il dettato costituzionale – il referendum non sarebbe ammissibile per l’intero testo. Il primo quesito oggetto della raccolta firme punta, però, ad abrogarlo in blocco.

Dunque il vaglio della Consulta sarà fondamentale per dirimere la questione. Invece è possibile promuovere un quesito su singole parti e nel rispetto dei limiti stabiliti dalla Consulta, che sono sia di materia sia di tipo logico di omogeneità del quesito. Questo dovrebbe essere l’obiettivo di un secondo quesito che è in via di elaborazione.

Se almeno uno dei due venisse dichiarato ammissibile, poi, sorgerà un altro problema: raggiungere il quorum del 50 per cento più uno di votanti. La soglia non è stata mai raggiunta nei referendum degli ultimi 13 anni e il fatto che alle ultime Europee gli elettori siano stati in media meno del 50 per cento non fa ben sperare.

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