Con l’8 novembre le scadenze del Regolamento europeo per la libertà dei media hanno cominciato a scattare. Può sembrare un documento velleitario, non credibile a un’opinione pubblica scettica. Ma è essenziale per dare ai cittadini l’informazione di qualità cui hanno diritto e per rimediare alla catastrofe della industria mediale europea e alla conseguente falcidie dei posti di lavoro di qualità destinati ai giovani europei
Il Regolamento europeo per la libertà dei media, in acronimo inglese EMFA (European Media Freedom Act) è in vigore dal 7 maggio 2024. È frutto del “Trilogo” (Commissione europea, Consiglio dell’Ue ed Europarlamento) è non richiede di essere “recepito”, bensì, a pena di procedura d’infrazione, di essere osservato provvedendo, dove necessario, alle norme di attuazione.
Scadenze
L’8 novembre 2024. è divenuto esecutivo l’art 3 che impegna gli stati membri sia a rispettare il diritto dei cittadini ad «avere accesso a una pluralità di contenuti mediatici editorialmente indipendenti» sia a garantire «l’esistenza di condizioni quadro conformi al presente regolamento per salvaguardare tale diritto, a beneficio di un dibattito libero e democratico». La Rai, secondo osservatori neutrali, è ad elevato (71 punti rispetto a un massimo di 97) rischio d’infrazione.
L’8 agosto 2025 diverranno esecutivi senza la necessità di norme di attuazione, l’art 4 che assicura la piena indipendenza di editoria e giornalismo, in particolare contro qualsiasi obbligo di rivelazione delle fonti, e l’art. 6 comma 3 che obbliga le proprietà editoriali a instaurare misure interne per cui, «nell’ambito della linea editoriale stabilita», le decisioni editoriali «possano essere adottate liberamente».
Dalla stessa data le imprese mediali dovranno comunicare «qualsiasi conflitto d’interessi effettivo o potenziale che possa influenzare la fornitura di notizie e contenuti di attualità».
Entro il medesimo 8 agosto vanno invece predisposte, stato per stato, le norme di attuazione relative a: l’art. 5 che fissa in termini circostanziati l’indipendenza «editoriale e funzionale» dei servizi pubblici mediali, norma per cui ogni stato dovrà formalizzare, in funzione dell’indipendenza, fonti, criteri e procedure di nomina dei vertici aziendali, definire la missione del servizio pubblico nazionale, organizzare e stabilizzare di conseguenza flussi di risorse pubbliche congrue e pluriennali; l’art. 6, commi 1 e 2 che obbliga i media privati a rendere trasparente il proprio assetto proprietario, compresa «la proprietà diretta o indiretta di uno stato o di un’autorità pubblica o di un ente pubblico». L’impegno attuativo dei singoli stati consiste nell’allestimento di «banche dati nazionali sulla proprietà dei media».
Il motore del Regolamento
Il Regolamento è uno strumento normativo potente, sovraordinato rispetto alle stesse costituzioni degli stati dell’Unione. In più quest’ultimo atto, relativo ai media, è scritto da mani competenti, capaci di indicare e fissare come sciogliere i nodi essenziali di ogni singola questione.
Potrà sembrare un documento pretenzioso e non credibile a un’opinione pubblica scettica, rassegnata o complice nel ritenere che “non se ne farà nulla”, specie riguardo alla trasparenza delle proprietà editoriali private e all’indipendenza del servizio pubblico.
Quantomeno per i lunghi trascorsi del controllo governativo oppure delle lottizzazioni tra partiti di maggioranza e opposizione col frequente, volonteroso e velleitario ausilio talvolta di cosiddetti utenti, consumatori, tutori di minori, nonché testimoni di statuti morali e/o culturali. Sotto il peso di tutt’altro che peregrini e assai diffusi scetticismi, c’è da chiedersi per quale recondita ragione sia spuntato dalla Ue un Regolamento che parrebbe destinato a carta straccia.
Il punto è che il Regolamento nasce dall’angoscia. L’angoscia per le drammatiche e incalzanti catastrofi economiche, industriali e sociali conseguenti alla constatazione che tutti gli stati Ue, dai più grandi ai minori, dall’est all’ovest, dal nord al sud, perdono risorse pubblicitarie a “bocca di barile” a favore degli operatori d’oltreoceano.
Google, Meta, Amazon e Netflix, che cumulano annualmente ricavi per 1.500 miliardi (previsti in crescita), ne estraggono 500 (annuali e anch’essi in crescita) dagli stati Ue. È dunque l’angoscia il motore che ha indotto quegli stessi che in patria lottizzano a emettere da Bruxelles un documento che toglie alla lottizzazione il terreno sotto i piedi e istituisce l’indipendenza del capitalismo editoriale.
Perché il nodo di fondo è estremamente e spietatamente chiaro: la emorragia di utili e di salari può essere fermata solo opponendo servizio a servizio, motore di ricerca a motore di ricerca, social a social, Ia generativa ad Ia generativa. Ovvero producendo anche in Europa i servizi che profilano gli utenti e li consegnano uno ad uno, in forma di bersagli, agli investitori pubblicitari.
Le industrie mediali europee devono riuscire a interporsi nel flusso di comunicazione che ogni giorno trasforma offerte in acquisti, trasformando capitale in ricavo. Ed è pacifico che le lilliput-imprese dei lillipuziani stati europei non hanno il fisico per salire al livello delle Big Tech. Quindi o divengono continentali o si risecchiscono nei sepolcri nazionali, mentre svaniscono i salari in loco a beneficio dei posti di lavoro d’oltreoceano.
L’azione dell’Unione
A fronte dell’assalto delle Big Tech la Ue ha reagito dapprima con regolamenti a tutela del consumatore (privacy, servizi digitali, intelligenza artificiale). Mentre col Regolamento per la libertà dei media è passata a occuparsi di dinamiche industriali.
Questo è il senso del costituire le condizioni basiche per la nascita di un mercato unico continentale in cui le imprese mediali possano crescere di scala e conseguentemente puntare a quote ampie del mercato continentale e mondiale nonché offrire ai talenti locali reali opportunità di lavoro in settori di alta gamma culturale e tecnologica. E, ultimo, ma non meno importante, fortificando la dimensione mediale delle democrazie del continente.
L’indipendenza delle “Rai” nella Ue
Ma perché in questa prospettiva è così importante che le “Rai” siano soggetti indipendenti e non i soliti strumenti a disposizione lottizzata degli equilibri fra i partiti del momento? La risposta va cercata su due piani. È giusto, intanto, porre un’enfasi sull’intendimento che stia proprio a quelle 27 “Rai”, dall’Italia alla Spagna, dalla Francia all’Ungheria, una volta rese davvero indipendenti, assicurare, grazie alla forza del finanziamento pubblico, un flusso di informazione autorevole.
Un faro, come dicono molti, nella nebbia delle bolle e dei fattoidi intrinseci alla dinamica degli algoritmi che rinchiudono le persone fra pareti a specchio. Il servizio pubblico, conseguentemente, deve risultare autorevole. Ed è ovvio che l’indipendenza è il fondamento dell’autorevolezza. Ma l’indipendenza “funzionale” delle 27 “Rai” nella Ue è anche funzionale al disegno e alla pratica del mercato mediale continentale che pretende standard tendenzialmente “oggettivi” di valutazione di costi e benefici. Il che verrebbe clamorosamente contraddetto se le “Rai” fossero espressione di poteri politici grazie ai quali, comunque le cose vadano, il fideiussore complice e solerte è Pantalone.
Nel pieno dell’atlantica tempesta
Va da sé che la costruzione di scala europea, ma con marcate ricadute nazionali, che fin qui abbiamo cercato di descrivere appare tanto più urgente ed essenziale nel mentre che la spalla Usa del “mondo occidentale” pare orientata a giocare molto pesantemente, come questione di vita o di morte, la carta del nazionalismo economico. Per placare entro i suoi confini le ricadute catastrofiche della globalizzazione o meglio delle sue promesse fideistiche.
Piano Draghi! Disegno Letta! Trasformare la preoccupazione in occasione! Questo sembra che tutti, più o meno, pensino in Europa. Sapendo che tra dire e fare di mezzo c’è il mare, anzi l’oceano, e che molto conta ciò che la gente percepisce, teme e spera.
Superfluo sottolineare che, in questa prospettiva, la puntuale realizzazione del Regolamento Media possiede un carattere strategico, una partita della vita, in sé stessa inevitabile, chiunque stia alla Casa Bianca. Per l’Europa e i suoi stati.
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