Giuseppe Conte si irrita, ma anche il Pd non offre il vitello grasso come a un figlio prodigo. Le reazioni all’ultima giravolta di Matteo Renzi, che torna a Canossa e offre – in realtà “chiede” – di entrare nell’alleanza con Pd, M5s e rossoverdi, sono più di diffidenza, sul genere «timeo Danaos, et dona ferentes», che di benvenuto.

La mossa arriva con il rito dell’intervista al Corriere della sera, lo stesso con cui negli anni ha annunciato le sue svolte a “U”, dalla nascita del governo Conte II alla sua morte. L’apertura era annunciata: dopo il palo preso con la lista Stati uniti d’Europa, aveva lanciato ami verso Elly Schlein, ai suoi occhi improvvisamente diventata bravissima, dopo essere stata una «massimalista», che «perde tutte le elezioni, anche quelle condominiali»; e ancor prima una che con il suo radicalismo avrebbe «aperto praterie al centro».

L’ex ministra Maria Elena Boschi era persino spuntata nell’affollatissima, e molto “di sinistra”, foto del comitato del referendum Cgil contro l’autonomia differenziata.

Negli ultimi giorni c’è stata anche un’altra foto, postata sui social di Renzi: quella di un affettuosissimo abbraccio fra lui e Schlein sul campo di calcio della Partita del Cuore. Che ha fatto storcere la bocca a molti militanti dem, che degli estemporaneismi dell’ex segretario sono i maggiori esperti.

Tre fallimenti e un’idea

Ora, dal bagno di realtà delle europee, Renzi prova a uscire rottamando il Terzo polo e riesumando il modello della Margherita: che però era una federazione di anime (ex Dc, ex Ppi, ecologisti, eccetera). E a lui ripropone il problema di sempre: quello di costruire senza poi sfasciare. Intanto è arrivato per primo a proporre una nuova “cosa” di centro, che però guarda sinistra. Dunque stavolta arrivano parole dolci sul fin qui spernacchiato campo giallorosso: l’alleanza fra lui, Schlein e Conte è possibile, dice, anzi «è anche l’unica alternativa per evitare che ci teniamo per lustri Giorgia Meloni». Dunque, se Schlein dichiara chiusa la stagione dei veti, «anche noi abbiamo un obbligo: non possiamo mettere veti sugli altri, a cominciare dal M5s».

Cosa è cambiato da quando, precisamente dal dicembre 2020, Renzi ha considerato Conte un rospo non più digeribile, e in nessuna salsa? Tre cose, tre fallimenti: l’operazione “centro” che ha tentato, con Carlo Calenda e poi con +Europa, è andata a sbattere; il bipolarismo, che doveva avere le ore contate, è vivo più di Italia viva; e l’ex premier, ormai sempre più impegnato come escursionista estero (nell’ultima cartolina è vestito da maragià, al matrimonio del rampollo dell’uomo più ricco dell’Asia), deve trovare un modo per assicurare un futuro a un gruppo sceltissimo di suoi famigli stretti.

Dalla Liguria dei «forcaioli»

La segretaria Pd non commenta: è stata lei a chiedere l’armistizio generale nel centrosinistra. Ma, girando le feste dell’Unità, sa bene che l’ex segretario divide i militanti, e fa perdere tanti voti quanti (pochi) ne fa guadagnare. Certo, una forza centrista servirebbe all’alleanza. Ma pochi credono che Renzi possa guidarla. Prodi aveva puntato su Calenda; Renzi ha giocato d’anticipo. Il capogruppo dem al Senato, Francesco Boccia, detta le condizioni: «Bene l’unità, ma ora va praticata. Andremo al voto in Emilia-Romagna, Umbria e speriamo in Liguria presto. Le forze politiche che si rivedono nel progetto unitario dei progressisti devono essere conseguenti». Il riferimento alla Liguria non è causale: giovedì tutto il centrosinistra, dalla piazza del capoluogo ligure, ha chiesto a gran voce le dimissioni del presidente Giovanni Toti, ai domiciliari dal 7 maggio. Compresa Azione, anche se con una delegazione locale. Iv non c’era, per non mischiarsi con «forcaioli e giustizialisti». Ma l’alleanza val bene la chiusura di un occhio sul fin qui irrinunciabile principio del garantismo.

E anche sul referendum sul Jobs Act, (che si dovrebbe votare lo stesso giorno di quello per l’abrogazione del ddl Calderoli) su cui la Cgil ieri ha scaricato alla Cassazione oltre un milione di firme, quattro milioni in tutto sui quattro quesiti. Renzi spiega che sul Jobs Act voterà no, ma senza farla lunga.

In Iv sono in molti ad approvare la svolta, da Enrico Borghi a Francesco Bonifazi a Raffaella Paita. A chiedere lumi resta solo il deputato Luigi Marattin: due settimane fa il suo leader aveva annunciato un congresso per scegliere il futuro del partitino tra “Margherita 2.0” e “nuovo Terzo polo”, ora invece Renzi ha già deciso da solo.

Resta gelido Giuseppe Conte. Che è il vero destinatario del messaggio politico.

Ma non è una cosa seria

L’intervista al Corriere contiene infatti una chiosa velenosa: «Il candidato premier deve essere il leader o la leader di partito che prende più voti nella coalizione». Non un federatore “terzo”, modello Prodi con l’Ulivo, che per Conte sarebbe l’unica speranza di non finire a fare da spalla alla segretaria Pd. Il presidente ha bisogno di tempo: la residua base grillina si agita fra isolazionisti e alleanzisti.

Dunque, a margine dell’assemblea di Coldiretti, a Roma, risponde severo: «Renzi fino a ora si è vantato di aver mandato a casa il governo Conte in piena pandemia, e oggi dice che Conte è assolutamente un suo interlocutore privilegiato? Beh, la politica per noi è una cosa seria». Calenda, che pure all’alleanza sta pensando – ma non vuole, o non può, o non sa fare il triplo salto carpiato come il collega – si tira fuori. «Questo è il modo di fare politica di Matteo. È una persona intelligente e abile, ma se deve allearsi con i nazisti dell’Illinois o con i marxisti-leninisti, lo fa. Non è il nostro percorso», è la conclusione, temporaneamente almeno.

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