Matteo Salvini e Giorgia Meloni sono in posizioni opposte: uno in crisi di consenso e in affanno nella sua scomoda posizione dentro il governo Draghi; l’altra in ascesa e intenta a capitalizzare il suo ruolo all’opposizione.

Le passate elezioni amministrative, poi, hanno dato le dimensioni della crescita esponenziale di Fratelli d’Italia anche al nord: sufficiente a far veleggiare Meloni verso la leadership del centrodestra. Eppure esiste un non detto di fondo: se sulla carta il centrodestra è contendibile e vige il principio che «il leader è chi prende più voti», come ha ricordato anche Salvini, in concreto non è scontato sia così.

Meloni sa bene di essersi progressivamente ritagliata un ruolo sempre più distinto dal centrodestra storico e questa separazione è stata enfatizzata dal suo ruolo di solitaria opposizione al governo Draghi. Fare la prossima campagna elettorale con una leader all’attacco delle misure assunte dal governo uscente non sarebbe proponibile per Lega e Forza Italia, che insieme hanno espresso sei ministri.

Esiste però una via indiretta ma più sicura per ottenere la leadership: aspettare con pazienza che la stella di Salvini si eclissi del tutto. Eliminato politicamente l’attuale segretario leghista, non ci sarebbero altri candidati naturali a guidare la coalizione.

Meloni rimane ferma

Tutte le mosse della presidente di Fratelli d’Italia sembrano muovere in questa direzione. «In questo momento sta gettando acqua sul fuoco e aspetta», confermano da FdI.

Pur con un buon successo alle amministrative e il sorpasso sulla Lega in molte città del nord, Meloni non ha esultato oltre misura. Avrebbe potuto rivendicare con forza il primato nei numeri, invece ha scelto la sobrietà: nessun attacco agli alleati ma solo al centrosinistra, non affonda il colpo nemmeno quando le viene chiesto se rivendicherà subito per sè la leadership e più candidati alle prossime regionali. Invece, si limita ad annunciare che «siamo pronti a governare con il centrodestra». Una specificazione che non è passata inosservata.

Nessuna foga di mettere bandierine, confermano fonti vicine alla leader. «Il premier si deciderà dopo le elezioni, Meloni ora non ha fretta», spiega un influente esponente del partito. Tanto che il prossimo passo sarà quello di «indire un tavolo di coalizione per scrivere il programma del centrodestra».

Anche nei confronti del governo la linea è attendista: opposizione sobria, senza urla e ostruzionismi. In parlamento, infatti, sta andando in scena un gioco delle parti. FdI interpreta il ruolo del solitario partito di opposizione i cui emendamenti – come successo sul Csm – vengono votati di volta in volta anche dalla Lega. Tanto basta per massimizzarne il ritorno nell’opinione pubblica, senza però mettere veramente in difficoltà il governo.

La tecnica di Meloni è quella di rimanere acquattata e immobile, senza sprecare le forze in questo ultimo scampolo di legislatura, in attesa dell’uscita di scena di Salvini. L’incognita rimane come questo avverrà: se per mano degli avversari interni annidati nelle regioni del nord come molti credono anche dentro FdI o per colpa di iniziative avventate in stile Papeete, come ha rischiato di essere il viaggio a Mosca.

Salvini si dimena

La strategia del leader della Lega, invece, è diametralmente opposta. Per Salvini, rimanere fermo significa venire travolto dalla crisi interna e relegato in un ruolo secondario dal governo Draghi. Una scossa è necessaria, ma la Lega è divisa internamente su quale sia la mossa giusta.

Nel frattempo, è stata scelta la via più scontata ma anche l’unica possibile: mettere in moto iniziative parlamentari che permettano al partito di prendere le distanze dalla scia dell’esecutivo. Muoversi ora contro riforme già avviate e in via di approvazione – dal Csm alla riforma fiscale fino alla concorrenza – però rischia di non avere alcun effetto.

Ormai è tardi per mettere mano ai testi in aula e fermarli non è una opzione possibile, infatti dal governo filtra tranquillità. Quelle di Salvini sono «solo schermaglie politiche», taglia corto un dirigente di palazzo Chigi.

A meno che il leader non sia tentato – come gli viene suggerito da alcuni consiglieri – dallo strappo definitivo a settembre, uscendo dal governo magari utilizzando come pretesto la legge di Bilancio. Secondo i fedelissimi di Salvini, infatti, a nuocere al consenso del capo è stato il fatto di essere parte di una maggioranza al servizio di un governo tecnico e l’impossibilità di assumere posizioni autonome su temi come il fisco e l’immigrazione, che da sempre mobilitano la sua base elettorale.

La minaccia di staccare la spina al governo, però, ha subito messo in moto i cosiddetti “governisti”. «I suoi gli impediranno di farlo», è il pronostico di un dirigente di Forza Italia. Il ministro Giancarlo Giorgietti e i due governatori del nord, Luca Zaia e Massimiliano Fedriga, sono contrari a mosse inconsulte negli ultimi scampoli di legislatura e sempre più decisi a stringere un cordone di sicurezza intorno al segretario. L’uscita dal governo, infatti, aprirebbe una frattura anche con Forza Italia e metterebbe in difficoltà le amministrazioni locali a guida leghista. 

Inoltre, la convinzione è che anticipare il voto non avrebbe alcun effetto positivo sul consenso della Lega soprattutto rispetto all’elettorato del nord, che ha chiesto stabilità e coerenza su temi concreti come fisco, pensioni ed economia. Invece, negli ultimi mesi Salvini ha preferito puntare sulla politica estera, creando più di qualche imbarazzo interno sia con il dibattito sulle armi all’Ucraina che con il pasticcio del mancato viaggio a Mosca. Invece, come ribadisce un parlamentare della Lega, «noi dobbiamo guardare al nord».

Tradotto: la volontà di trasformare la Lega in un partito nazionale è durata il tempo di quel 34 per cento conquistato alle Europee del 2019 grazie alla spinta di Salvini, che allora era davvero una calamita per i consensi.

Ora, invece, l’emergenza è quella di recuperare gli elettori persi nei feudi storici, dove la media queste amministrative ha fatto segnare il 6 per cento, pur al netto delle tante liste civiche. «Per salvare la Lega va commissariato Salvini», si spinge a dire un dirigente del Veneto, dove ancora brucia il ballottaggio in rincorsa del centrosinistra a Verona. Infatti, un altro scossone è dietro l’angolo: il 26 giugno il secondo turno delle amministrative dirà definitivamente quanto profonda è la crisi leghista.

In questo clima da accerchiamento, per il segretario della Lega non ci sono soluzioni semplici. «E’ stretto in una tenaglia da cui è quasi impossibile uscire», commenta un ex deputato di centrodestra che segue da vicino le vicende della coalizione.

Intanto, Meloni si gode lo spettacolo e aspetta il momento buono per essere lei a convocare (presto) il tavolo di programma per la coalizione di centrodestra, così da conformarla sulla sua nuova leadership.

 

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