La commemorazione della Camera per i cinquant’anni dalla strage di piazza della Loggia a Brescia è un momento solenne, pazienza se nel lato destro dell’emiciclo ci sono molti posti vuoti. Il vuoto che pesa è nei banchi del governo. Una scelta.

In mattinata il presidente Sergio Mattarella, a Brescia, ha pronunciato parole intense su quel massacro: otto morti e 102 i feriti, una bomba esplosa alle 10 del 28 maggio 1974 nella piazza dove in migliaia partecipavano a una manifestazione dei sindacati contro la violenza neofascista che da settimane imperversava nella città. E nel resto del paese.

Fu uno degli anni più duri del tentativo eversivo dell’estremismo di destra. Mattarella ha incontrato i familiari delle vittime, è stato applaudito dalle migliaia di persone accorse in quella stessa piazza a fare della memoria un impegno. Lungo applauso anche dentro il Teatro Grande. Gli attentatori, ha detto, volevano «punire e terrorizzare chi manifestava contro il neofascismo e in favore della democrazia», ma era anche «un tentativo di destabilizzazione contro la Repubblica italiana e le sue istituzioni democratiche. In Italia vi era chi tramava e complottava per instaurare un nuovo regime autoritario. Contro la Repubblica, nata dalla lotta della Resistenza, che aveva indicato le sue ragioni fondanti nella democrazia, nella libertà, nel pluralismo, nella solidarietà, principi scolpiti nella Carta Costituzionale».

A Montecitorio

Poche ore dopo, i deputati hanno ricordato la mattanza di matrice neofascista, stavolta indiscutibile anche per i più pensosi revisionisti delle stragi. Il governo dov’era? I deputati della destra in Transatlantico sfuggivano, spiegando che «la presenza dell’esecutivo in aula, in queste occasioni, non è obbligatoria».

A Brescia il governo ha inviato la ministra Anna Maria Bernini, non è poco, ma comunque solo lei. A Roma invece nessuno: il ministro dei Rapporti con il parlamento Luca Ciriani era al Senato a presidiare il dibattito sul premierato. Neanche un sottopanza. Quando si è passati a discutere di conflitto di interessi, si è materializzato il sottosegretario Federico. Freni. «Le assenze spesso valgono più di tante parole», secondo il deputato Federico Fornaro (Pd) e quello del governo è «un oltraggio alla memoria delle vittime innocenti e alle loro famiglie».

FdI ha recitato il suo classico. Manlio Messina ha condannato «la crudeltà di quella drammatica pagina della nostra storia rappresentata dai cosiddetti anni di piombo», ma ha dimenticato di pronunciare la parola «neofascista», la matrice della bomba. Gli alleati lo hanno fatto. Una differenza politica che pesa anche nei comunicati dei due presidenti delle camere.

Chi è stato?

Quello di Montecitorio, il leghista Lorenzo Fontana, parla di «attentato di matrice neofascista»; quello del Senato Ignazio La Russa, no. Chi ha messo la bomba a Brescia? Per lui è un dettaglio irrilevante. O indicibile. Eppure due neofascisti sono stati condannati, Carlo Maria Maggi, leader di Ordine nuovo – il movimento politico e organizzazione terroristica fondato da Pino Rauti, una parte dei camerati nel 1973 era rientrata nel Msi di Almirante – e Maurizio Tramonte, ordinovista e collaboratore del Sid, i servizi segreti militari, entrambi condannati all’ergastolo. Per altri due, Marco Toffaloni e Roberto Zorzi, il processo è in corso.

A Brescia, a rappresentare ufficialmente le camere, non è andato nessuno dei due presidenti. I collaboratori spiegano che non c’erano comunicazioni da parte del Quirinale e che in questo tipo di impegni il presidente non deve essere accompagnato da altre istituzioni.

Mattarella ha interloquito con gli striscioni della piazza che parlano di «strage di stato». No, ha detto, «era lo stato democratico il bersaglio dei terroristi, e lo stato democratico non si identifica con complici, pavidi, corrotti, o addirittura infiltrati in apparati dello stato. Hanno tradito l’Italia. Hanno tramato nell’ombra contro il loro popolo e il loro paese» ma «di fronte alla guerra violenta di opposti estremismi – nero e rosso – che, in quella stagione di sangue e di aspri conflitti internazionali, provarono a rovesciare la Repubblica e la sua democrazia». Oggi «ha prevalso lo Stato, la Repubblica, il suo popolo. Oggi la Repubblica italiana è Brescia, è Piazza della Loggia».

La premier era a Caivano. Il suo comunicato è arrivato in serata: «Continueremo a lottare contro ogni forma di terrorismo, affinché libertà e democrazia restino i soli pilastri sui quali si fonda la nostra Nazione». Nessun accenno a quale destra ha armato la mano di quei camerati. Ma un’eco di quello che pensa era arrivato dal Secolo d’Italia. Un post che risponde al capo dello Stato: «Sì, la Repubblica italiana è a Brescia, dove c’era Mattarella. Ma è anche a Caivano dove c’era la premier».

Un segnale degli entusiasti del premierato, un tentativo di ridimensionare il presidente molto amato dagli italiani, e con la memoria della strage, la parte oscura delle proprie origini politiche? «È solo un complesso di inferiorità oppure sono un po’ infastiditi dal fatto che il presidente ha ricordato che tutte le stragi di questo paese hanno una matrice neofascista?», chiede Alfredo Bazoli, senatore del Pd. Sua madre è morta a piazza della Loggia. Conclude: «Fanno fatica a riconoscersi nella città colpita dalla violenza eversiva neofascista, fanno fatica a riconoscersi nelle parole nette del nostro presidente? C’è da rimanere davvero senza parole».

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