La confusione sotto il cielo rimane massima, fino a quando la Corte di giustizia dell’Unione europea non chiuderà una volta per tutte la corretta interpretazione delle norme e delle sentenze europee da applicare ai trattenimenti nei Centri per i rimpatri in Albania.

Eppure, al netto dei cavilli giuridici, tutte le decisioni della Cassazione vanno nella stessa direzione e così, da ultimo, anche l’ordinanza pubblicata ieri secondo cui, certamente, la valutazione dei paesi sicuri «spetta, in generale, soltanto al ministro degli Affari esteri e agli altri ministri che intervengono in sede di concerto» e il giudice «non si sostituisce nella valutazione».

Tuttavia, sottolinea la Suprema corte, il giudice «è chiamato a riscontrare la sussistenza dei presupposti di legittimità della designazione di un certo paese di origine come sicuro». Addirittura, si legge, «egli è chiamato a verificare, in ipotesi limite, se la valutazione ministeriale abbia varcato i confini esterni della ragionevolezza e sia stata esercitata in modo manifestamente arbitrario o se la relativa designazione sia divenuta, ictu oculi, non più rispondente alla situazione reale (come risultante, ad esempio, dalle univoche ed evidenti fonti di informazione affidabili ed aggiornate sul paese di origine del richiedente)». Questa, dunque, è l’interpretazione che la Cassazione italiana offre, secondo il principio di leale collaborazione, ai giudici europei che dovranno decidere.

In estrema sintesi, la linea della Cassazione rimane quella di ritenere perfettamente legittimo che il giudice italiano sindachi in ogni caso concreto la nozione di paese sicuro, che è un concetto generale, valutando se sia corretto o meno.

La sua decisione è, nelle conclusioni, in linea con la pronuncia del 19 dicembre, che aveva stabilito come il potere di accertamento dei giudici non possa essere limitato al fatto che uno stato sia inserito nell’elenco dei paesi sicuri ma, siccome tale inserimento «è guidato da requisiti e da criteri dettati dal legislatore europeo e recepiti dalla normativa nazionale», il giudice deve «verificare la sussistenza in concreto dei criteri, normativamente predefiniti, che consentono di qualificare un paese come sicuro».

In attesa che la Corte di giustizia dell’Ue si esprima – la decisione è attesa per il 25 febbraio, le motivazioni per la primavera – la linea interpretativa dei giudici, sia di merito sia di legittimità, va in direzione non favorevole alla tesi del governo, secondo cui il giudice, per convalidare il trattenimento in Albania, deve farsi bastare il fatto che il paese di provenienza del migrante sia inserito nella lista dei paesi sicuri stilata dal ministero degli Esteri (ora con valore di legge, dopo il decreto legge dei mesi scorsi).

Ferma questa sintesi, il dato politico continua a mostrare la volontà dell’esecutivo di fare propri alcuni passaggi delle sentenze di Cassazione per sostenere la linea dell’esecutivo sulla utilizzabilità dei Cpr in Albania, vuoti da mesi e che avranno un costo di 653 milioni di euro in 5 anni.

La propaganda

Palazzo Chigi, infatti, ha da settimane mobilitato tutte le forze per fare contro-informazione. Già nella peculiare sede delle comunicazioni prima del Consiglio Ue, la premier aveva pubblicamente invitato i giudici europei a non avallare le «sentenze italiane dal sapore ideologico» che, se sposate dalla Corte di giustizia Ue, «rischierebbero di compromettere i rimpatri da tutti gli stati membri: una prospettiva preoccupante e inaccettabile che occorre prevenire».

Sul fronte interno, invece, Meloni ha scelto di leggere – e di rilanciare – in maniera solo parziale le decisioni della Cassazione. Durante il viaggio istituzionale in Finlandia ha parlato dei centri in Albania e detto che «mi pare che la Cassazione abbia dato ragione al governo, è diritto dei governi stabilire quali siano i paesi sicuri» mentre i giudici possono «entrare nel singolo caso, non disapplicare in toto».

Lo stesso è accaduto ieri con l’ultima ordinanza. Un fuoco di fila di dichiarazioni da parte di esponenti del centrodestra hanno avuto come ritornello che «la Cassazione ha dato ragione al governo» e addirittura, secondo il capogruppo di FdI, Galeazzo Bignami, «mette fine alla indecorosa campagna di mistificazione». Il sottosegretario Andrea Delmastro ha addirittura sostenuto che «la Cassazione pone una pietra tombale sulle speranze immigrazioniste della sinistra italiana: la lista della definizione dei Paesi sicuri spetta al governo, così come le politiche migratorie». In realtà, l’ordinanza della Cassazione è interlocutoria e rinvia la sua decisione a dopo la sentenza Ue, riconfermando il primato europeo e dunque non dando ragione a nessuno nello specifico caso.

Inoltre, applica le norme precedenti al decreto legge sui paesi sicuri varato dal governo, perché il caso trattato è precedente. Infine, le conclusioni a cui la Suprema corte arriva confermano il diritto dei giudici di valutare, motivando la scelta, se un paese sia sicuro o meno nel caso concreto in esame.

L’unico dettaglio davvero nuovo contenuto nella decisione, invece, riguarda l’interpretazione alla pronuncia della Corte di giustizia europea del 4 ottobre scorso. Anche su questo il giudizio finale è della Corte di giustizia ma, secondo la Suprema corte, la sentenza «si occupa esclusivamente delle eccezioni territoriali, chiarendo che l’esistenza di aree interne di conflitto e violenza indiscriminata è incompatibile con la designazione di un paese terzo come sicuro», mentre «le eccezioni per categorie di persone non hanno formato specifico oggetto della decisione».

La precedente decisione del tribunale di Roma, invece, aveva interpretato la sentenza Ue nel senso di ritenere che la qualifica di “sicuro” dovesse essere attribuita alla «situazione di ordine generale, concernente intere categorie di cittadini o zone di quel dato paese».

Anche alla luce di questa discrepanza, tuttavia, le conclusioni rimangono le stesse: la discrezionalità del giudice permane anche davanti alla valutazione generale dei paesi sicuri da parte del ministero.

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