Giorgia Meloni preferisce tenersi impegnata a Bagnoli, incontrando ad un evento istituzionale l’avversario Vincenzo De Luca. È un modo per ristabilire toni civili, dopo la battuta polemica con parolaccia durante la visita al Parco Verde di Caivano, e dimostrare che quell’invito ad abbassare i toni – in seguito all’attentato a Donald Trump – non vale solo oltre oceano.

La premier, fresca di rientro da Washington e a breve in partenza per Bruxelles, non può però ignorare le divaricazioni sempre più profonde che si stanno aprendo nel suo governo. In particolare sul fronte della Lega e proprio nel settore a lei più caro: la politica estera, sulla cui immagine di successo ha costruito la sua narrazione di buon governo.

I proiettili contro Trump, infatti, sono stati solo l’ennesima dimostrazione di come l’alleato sempre più riluttante, Matteo Salvini, colga ogni occasione per marcare le sue differenze rispetto alla premier. Sempre più spostato verso l’estrema destra sia in Europa con il nuovo gruppo dei Patrioti che nell’aperto sostegno al candidato repubblicano, Salvini si è speso nelle ultime 48 ore con un profluvio di interviste.

«Apprezzo gli appelli per abbassare i toni, che ora arrivano anche dai Democratici Usa: meglio tardi che mai. Se si passa il tempo a descrivere Trump come un mostro da abbattere a tutti i costi puoi trovare la testa calda che passa dalle parole ai fatti», è stato il suo commento al Giornale. Chiaro l’orizzonte: instaurare un parallelismo tra democratici Usa e la sinistra italiana, accusandola di linguaggio d’odio. Esattamente la linea che anche una parte dei conservatori americani sta tenendo e che permette a Salvini di fare l’ennesimo endorsement al Tycoon: «Penso che un'amministrazione a guida Trump avrebbe mano più ferma per riportare al dialogo le parti in conflitto, sia Russia-Ucraina che Israele e Palestina».

Proprio il passaggio sul conflitto ucraino, del resto, è stato solo l’ultimo dei distinguo su cui Salvini si è lanciato proprio mentre Meloni era a Washington: anche se poi la posizione si è ammorbidita, il segretario leghista ha rimarcato per l’ennesima volta le sue perplessità rispetto all’invio di armi a Kiev come strategia per gestire il conflitto. Il contrario di quanto detto e sostenuto dalla premier sul suolo americano, dove ha dovuto ribadire la collocazione atlantista dell’Italia e la sua dedizione alla causa ucraina, sulla scia dell’Ue e dell’attuale amministrazione Biden.

Un altro fronte non marginale, infine, riguarda l’Italia. La situazione ligure, con il governatore Giovanni Toti ancora ai domiciliari, è un bubbone pronto a esplodere e il centrodestra deve decidere come procedere. Il diretto interessato sembra aver capito di non poter continuare in questo modo e starebbe ragionando del suo futuro in caso di dimissioni.

Per questo ha chiesto e ottenuto il parere favorevole della procura per un nuovo ciclo di incontri politici: i due assessori regionali della sua lista, Giacomo Giampedrone e Marco Scajola, ma soprattutto il vicepremier Matteo Salvini. La Lega, del resto, avrebbe un candidato pronto - il sottosegretario Edoardo Rixi – e il fatto che sia stata scelta come primo interlocutore di Toti è un elemento che non è sfuggito a Fratelli d’Italia.

I freni di Meloni

Quanto più Salvini esaspera i toni, tanto più aumenta la frustrazione di Meloni. Spinta dagli attacchi dell’alleato ma senza potergli rispondere apertamente per non enfatizzare il conflitto, la premier rischia di finire in un collo di bottiglia su due fronti: sia quello americano che quello europeo.

Dal punto di vista tattico, mai foto è invecchiata peggio di quella del democratico Joe Biden che bacia in fronte Meloni. Quella che solo qualche mese fa era stata la prova che la premier aveva raggiunto la credibilità agli occhi degli Usa, dopo l’attentato di Trump è diventata un punto problematico. O meglio, la ragione che spiega perché la premier non possa spingersi in dichiarazioni forti, sui toni di Salvini. La veste istituzionale che Meloni tanto ha ricercato, infatti, oggi la espone alle incursioni alleate.

Lo stesso sta accadendo sul fronte europeo. Il nuovo gruppo dei Patrioti, dove Salvini è entrato insieme a Marine Le Pen e Viktor Orban, è la nuova ultradestra antagonista di Ursula von der Leyen, con posizioni che da alcuni analisti sono state definite filo-putiniane. L’Ecr di cui Meloni è presidente, invece, rischia di sciogliersi nell’irrilevanza di posizioni più moderate senza però aprire un vero dialogo con il prossimo governo dell’Ue.

Alla luce di tutto questo, davanti alla premier si sta materializzando una grande questione: se l’effetto di questo attentato portasse Trump a tornare alla Casa Bianca, la linea americana di sostegno a Kiev cambierebbe, l’Europa verrebbe lasciata più sola e il vero interlocutore accreditato col nuovo presidente sarebbe Salvini. In altre parole, la strategia fin qui messa in campo da Meloni in politica estera dovrebbe essere ricalibrata.

E un primo segnale di questo è arrivato già oggi, quando il deputato FdI e segretario di Ecr Antonio Giordano ha annunciato la sua partecipazione alla convention dei Repubblicani a Milwaukee, sottolineando che «noi diamo sostegno al loro candidato» e, soprattutto dopo l’attentato, «intendiamo portare supporto e conforto». Programmata da tempo, la visita acquista un peso maggiore alla luce del mutato contesto degli ultimi giorni: Giordano incontrerà i dirigenti della campagna di Trump, e avrà riunioni con una serie di think tank americani interessati a conoscere la situazione europea e quella italiana. Un modo per non lasciare del tutto il campo libero ai Patrioti, almeno nell’immediato.

© Riproduzione riservata