Molto, molto meglio delle previsioni. La campagna di Elly Schlein era iniziata malino, con un’estenuante scelta dei candidati al ralenti che aveva provocato nel Pd malumori, borborigmi, premesse e promesse fosche.

In attesa dei risultati di domenica notte, delle europee e – attenzione – delle amministrative, fino a qui ha avuto ragione lei. Contro quasi tutti.

Ha fatto digerire una compatta pattuglia di candidati indipendenti, potenzialmente esplosivi per le liturgie interne, e alla fine ha insegnato l’aritmetica ai suoi: il Pd deve cercarsi i voti oltre il perimetro stretto in cui si è recintato nelle ultime tornate (l’obiettivo di recuperare dall’astensione invece è un lavoro di lunga lena). E così lo slogan di tutti è diventato «Il pluralismo è una ricchezza»; tradotto, la lotta delle preferenze è senza cortesie, ma le «liste forti» servono a sommare nel Pd consensi da mondi diversi.

Schlein è dunque entrata in battaglia con un partito che le prometteva la resa dei conti dopo il voto, e invece arriva alla meta molto rafforzata, praticamente indiscutibile. Basterà un risultato che tocchi il 21 per cento (al Nazareno il calcolo è: nel 22,7 del 2019 c’era la forza anche di Renzi e Calenda, dopo le politiche del 2022 il Pd era quotato fra il 14 e il 16 per cento, sopra lì è tutto guadagno) per togliere dal tavolo la discussione sulla sua leadership; anzi dal freezer, dove era stata congelata. Si vedrà se riuscirà anche ad accorciare la distanza con FdI e allungare quella con M5s. Il paragone fra le sue preferenze e quelle di Giorgia Meloni non sarà un tema: l’una è capolista in due circoscrizioni, l’altra in tutte. Ma per Schlein la polarizzazione era una scommessa ambiziosa, si diceva velleitaria, aveva fatto male a Letta: a lei invece ha fatto bene.

Forte senza strappi e alleanze adulte

Se andrà così, cosa farà Schlein di questa forza? Intanto si potrà affrancare dall’immagine malevola – e falsa – di ultima risorsa dei timonieri di sempre, come Dario Franceschini. Potrebbe dare al Pd la “sterzata a sinistra” fin qui solo accennata. Ma su questo peserà il risultato dei “suoi” candidati.

Anche perché l’ala riformista ha schierato l’artiglieria pesante: Bonaccini, Gori, Decaro, per fare tre esempi. Se centra il risultato pieno, significherà che una buona affermazione del Pd non può prescindere da quest’area. È il senso delle parole del presidente del Copasir Lorenzo Guerini alla Stampa, parlando di Jobs Act (ma vale anche per la Nato, l’Ucraina e la Palestina): «Sia io che la segretaria siamo consapevoli di avere idee diverse sul tema», ma «va dato merito alla segretaria che sta facendo una campagna molto energica e ha mobilitato tutto il partito». In questi ultimi mesi il dialogo fra i due – Schlein e Guerini – è stato costante. E per quanto lei potrà forzare qualche accento, non ci sono alle viste strappi: è la leader della seconda forza della famiglia europea dei socialisti, l’atlantismo del Pd non è in questione.

Con la laurea da leader, dunque, dovrà incardinare l’alleanza larga, quella che al Pd non è mai davvero riuscita. Toccherà a lei sedere a capotavola del tavolo del centrosinistra. Se il voto proporzionale fotograferà un paese (mezzo paese in realtà, quello dei votanti) in cui la destra non è maggioranza, nella seconda fase della legislatura sarà difficile per le altre forze d’opposizione sfilarsi.

Giuseppe Conte, qualsiasi risultato porti a casa – ed è temibile la sua reazione a un eventuale flop, vedasi quando dall’insuccesso alle comunali di giugno 2022 partì la slavina che lo portò a propiziare la caduta del governo Draghi – dovrà fare un bagno di realismo e abbandonare le fantasie di premiership: in caso contrario se la vedrebbe innanzitutto con i suoi, che nei comuni hanno fatto quasi ovunque accordi con il Pd.

Per trasformare i numeri in politica, Schlein dovrà fare un discorso adulto anche con i centristi: da quella parte ogni lasciata – Renzi, per dire – non è persa, è regalata a destra. Ad aiutarla c’è l’addensante del no alle riforme. Per il premierato, le europee saranno un anticipo di referendum. Se il voto certificherà una maggioranza di italiani contraria alla riforma Meloni, per le opposizioni sarà Bingo. Anche se la premier, cui non difetta intelligenza politica, vedendo la malaparata, potrebbe cautamente indirizzarla su un binario morto, tanto «chissene importa».

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