Per il ministro dell’Istruzione, quelle leggi interruppero «la piena e felice integrazione fra italiani di religione ebraica e religione cristiana». Dimentica non solo che il razzismo esisteva da decenni, ma che gli ebrei italiani lo erano a pieno titolo, senza bisogno di integrazione
È vero che le parole volano, ma hanno anche un peso, e il loro uso ha la capacità di rimodellare il modo in cui si osserva il mondo. Specie se vengono utilizzate a livello pubblico da chi ha funzioni pubbliche.
Il neoministro dell’Istruzione e del merito Giuseppe Valditara ha scritto una lettera a La Repubblica commentando l’anniversario della promulgazione delle leggi razziali del 1938. Un «dovere, prima ancora che un diritto», lo ha definito il ministro: una lettera che porta con sé qualcosa di più di un ricordo di quanto accaduto. Essa ha messo in campo una narrazione.
Questa narrazione si appoggia su espressioni forti, la prima delle quali dice: «Per la prima volta si affermava nell’ordinamento giuridico del nostro paese l’idea aberrante che esistano razze biologicamente superiori e inferiori». Il concetto che vuole esprimere uno spartiacque (prima il razzismo fascista non c’era, dopo sì) e racconta un punto di vista. Che però è storicamente inesatto.
Tralasciando i molti esempi che raccontano di come il fascismo nasca movimento che ha nel razzismo biologico una delle sue componenti più solide, dall’odio antislavo presente fin dai primordi all’enunciazione del concetto di “razza italica”, basta soffermarsi sulle leggi che esso mette in campo, e ben prima del 1938.
Il fascismo, da sempre razzista
Nel 1933, con la legge sull’Ordinamento organico per l’Eritrea e la Somalia , il fascismo stabilisce l’inferiorità razziale dei sudditi coloniali di fronte alla legge e la loro discriminazione nell’accesso ai diritti fondamentali. Caratteristica fondamentale dell’essere sudditi è, ovviamente, il colore della pelle. Nel 1937, dopo l’invasione dell’Etiopia, il razzismo biologico fascista si esplicita con leggi come il regio decreto 880 dal titolo “sanzioni per i rapporti d’indole coniugale fra cittadini e sudditi”, nel quale si puniscono le unioni tra cittadini (leggi “bianchi”) e sudditi (leggi “neri”) in nome della preservazione della purezza del sangue italico.
La razza e la sua purezza sono temi cari a Mussolini, che il 4 settembre del 1934 scrive sul Popolo d’Italia un articolo allarmato, dal titolo “La razza bianca muore?” in cui il duce parla del rischio per la «razza bianca» col «progredire in numero e in espansione delle razze gialle e nere», con toni e argomenti simili a quelli di chi oggi parla di sostituzione etnica.
Che il tema del razzismo biologico sia parte da sempre dell’armamentario ideologico fascista lo conferma, proprio in occasione della promulgazione delle leggi razziali del 1938, lo stesso Gran consiglio del fascismo in un foglio d’ordine del 26 ottobre di quell'anno. In risposta al Manifesto della razza, correttamente citato dal ministro, il Gran consiglio «ricorda che il fascismo ha svolto da sedici anni [cioè dal suo avvento al potere nel ‘22] e svolge un’attività positiva, diretta al miglioramento quantitativo e qualitativo della razza italiana, miglioramento che potrebbe essere gravemente compromesso, con conseguenze politiche incalcolabili, da incroci e imbastardimenti. Il problema ebraico non è che l’aspetto metropolitano di un problema di carattere generale». Più chiaro di così…
Qualcuno potrebbe affermare che, contestualizzando il tema del razzismo coloniale nell’epoca degli imperialismi, il fascismo italiano potrebbe sembrare razzista “tanto quanto” le coeve democrazie liberali con vasti imperi coloniali. Anche ammettendo che “lo fecero tutti” possa essere una scusante per i crimini del fascismo oltremare, è il regime stesso a collegare il proprio antisemitismo “metropolitano” al più ampio razzismo esercitato in colonia.
In questo, le leggi razziste del 1938, lungi dall’essere una sorta di concessione al sempre più ingombrante alleato nazista, come qualcuno ancora sostiene, si inquadrano in quel preciso disegno razziale di cui il fascismo è stato sempre propugnatore. Un razzismo tutt’altro che importato, ma vergognosamente (oggi) e orgogliosamente (allora), made in Italy.
Gli ebrei italiani erano italiani
Quando poi nella lettera, probabilmente con scelta lessicale poco felice, ci si riferisce al «percorso storico di piena e felice integrazione fra italiani di religione ebraica e religione cristiana», ci si dimentica che quello degli ebrei italiani nella società non è un percorso di integrazione, ma una realtà. Il Risorgimento e la formazione dello Stato italiano hanno, tra le loro molte anime, quella composta da un liberalismo laico che vedeva nella religione un’espressione individuale e intima più che pubblica e identitaria, anche perché per lungo tempo, sia prima sia dopo la breccia di Porta Pia del settembre 1870, la chiesa cattolica con le sue gerarchie fu uno degli avversari più fieri dell’idea di stato unitario.
Per questo motivo non furono pochi gli ebrei italiani che presero parte alla costruzione del neonato regno anche in nome di una laicità che garantiva loro non tolleranza, ma uguaglianza; non integrazione, ma identità. Il fascismo non interrompe il cammino di integrazione (assimilazione?) degli ebrei italiani, ma discrimina attraverso leggi ignobili persone che si sentivano ed erano a pieno titolo, fino a quel momento, parte già integrante della società italiana. Ci fu addirittura chi scoprì solo allora, all’atto dell’applicazione della legislazione razziale, di essere stato inserito a forza nella categoria degli “ebrei”; gente che fino a quel punto pensava di essere semplicemente italiana.
Infine l’inciso, quel «Sappiamo, proprio grazie agli studi di genetica, che non esistono razze umane biologicamente superiori o inferiori». Non è proprio così. La genetica ci insegna che non esistono razze umane. Punto. Parole che pesano, si diceva.
È giusto ricordare i momenti del passato comune che implicano una presa di responsabilità nei confronti dei crimini del passato, ma è al contempo necessario farlo con il supporto dei fatti storici nella loro interezza, per evitare che la memoria pubblica si trasformi in una collezione di immagini parziali, e quindi incomplete.
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