Transnistria, Abkhazia e Ossezia del sud sono l'emblema della strategia fagocitante del presidente russo
Il riconoscimento delle auto proclamate repubbliche di Donetsk e Lugansk nel Donbass da parte di Vladimir Putin ritorna come un deja vu storico e politico già visto in altri territori. La situazione è paragonabile a quanto accaduto in Georgia, nei territori di Abkhazia e Ossezia, e nella Transnistria. Territori che sorgono in altri stati ma che di fatto sono sotto l’influenza politica ed economica del Cremlino e usati come pedine nello scacchiere geopolitico internazionale.
Abkhazia
La storia dell’Abkhazia è emblematica della strategia fagocitante usata da Vladimir Putin negli anni seguenti alla dissoluzione dell’Urss per avere il controllo di alcuni territori nelle ex repubbliche sovietiche.
L’Abkhazia è un territorio appartenente allo stato della Georgia, situato sul Mar Nero ai confini con la Russia e che si è autoproclamato indipendente nel 1992 dopo un conflitto che ha causato circa 20mila morti. Tra i pochi paesi che hanno riconosciuto la sua indipendenza ci sono, oltre alla Russia, anche Nicaragua, Siria, Venezuela e Nauru.
L’Abkhazia è un territorio piccolo, grande poco meno delle Marche, e negli anni circa 200mila cittadini georgiani sono stati cacciati dalla zona. L’area è ricca di risorse minerarie ma è stata isolata economicamente dagli stati limitrofi e il principale sostegno economico è stato fornito da Mosca.
Nel marzo del 2022 nel paese si svolgeranno le elezioni parlamentari. Le precedenti tornate elettorali non sono mai state riconosciute dall’Unione europea. In una dichiarazione della presidenza dell’Ue del 2001 tra le motivazioni della mancata legittimità elettorale si legge: «Non erano presenti le condizioni per lo svolgimento di uno scrutinio equo a causa dell’assenza di 300mila georgiani originari dell’Abkhazia cacciati dalle loro case».
Ossezia del Sud
La storia dell’Abkhazia si intreccia con quella dell’Ossezia del Sud, un altro territorio formalmente appartenente alla Georgia. L’Ossezia del Sud, popolata da discendenti di nomadi iraniani, si è autoproclamata indipendente nel 1991 e come la sua “cugina” Abkhazia ha goduto fin da subito del sostegno economico e militare del Cremlino che ha puntato a limitare l’influenza georgiana nel Caucaso, un’area strategica per la Russia.
La situazione di conflitto militare è stata congelata fino al 2008 quando scoppia la seconda guerra dell’Ossezia del sud. Nei giorni del 7 e 8 agosto il presidente georgiano Mikehil Shakashivili ha bombardato la capitale Tskhinvali e quando i giochi sembravano oramai conclusi ci ha pensato Mosca a ripristinare lo status politico-territoriale.
Nella cosiddetta guerra dei cinque giorni le forze georgiane sono state sconfitte dall’esercito russo che ha occupato il territorio delle due repubbliche, non senza subire pesanti perdite e mostrare uno stato di disorganizzazione che ha prodotto numerose riforme negli anni successivi. All’epoca, il presidente russo era Dmitry Medvedev, fedele collaboratore di Putin che ha tenuto per lui l’incarico di presidente quando ancora la costituzione impediva di svolgere più di due mandati consecutivi.
Verso fine agosto Medvedev ha firmato un decreto con il quale ha riconosciuto come parte della comunità internazionale le repubbliche dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud, prima di ritirare le sue truppe in autunno. Ora il territorio ospita diverse basi militari russe. L’Abkhazia e l’Ossezia del sud costituiscono circa il 20 per cento del territorio georgiano.
A partire dal 2009 l’Unione europea ha avviato nell’area una politica di non-riconoscimento e coinvolgimento, con l’obiettivo di rafforzare la collaborazione con le due regioni separatiste ma ferma restando l’integrità territoriale della Georgia.
Transnistria
Se il confine orientale dell’Ucraina è caldo, non lo è di meno quello occidentale dove la repubblica della Transnistria all’interno del territorio moldavo ha chiesto anch’essa l’annessione alla Russia. Proprio come accaduto in Abkhazia e Ossezia del sud a destabilizzare l’area è stata la dissoluzione dell’Unione sovietica.
Il 2 settembre del 1990 la regione, che faceva parte della Repubblica socialista sovietica moldava, ha dichiarato in maniera unilaterale la sua indipendenza come Repubblica Moldava di Piednistrov. Un gesto che ha scatenato un conflitto armato concluso con un cessate il fuoco e la creazione di un’area demilitarizzata tra la Moldavia e la Transnistria lungo il fiume Dnestr.
Le tensioni risorgono nel marzo del 2014 quando dopo l’annessione di Mosca della Crimea anche i governanti della Transnistria hanno chiesto la sua integrazione nella Federazione. Non è un caso, infatti, se l’Ucraina ha bloccato l’ingresso dei cittadini russi provenienti dalla Transnistria (dove molti hanno il doppio passaporto) e soprattutto ha rallentato i flussi commerciali con la zona.
Nel 2020 la presidente moldava europeista, Maia Sandu, ha detto: «In Transnistria c’è un gruppo operativo di truppe della Federazione russa, rispetto al quale non ci sono mai stati accordi da parte della Moldavia. Pertanto, la nostra posizione è che queste truppe dovrebbero essere ritirate e le armi dovrebbero essere rimosse dal territorio del nostro paese». Sandu ha chiesto un intervento da parte dell’Osce per trasformare la missione di pace della russa presente nel territorio in una missione civile sotto il controllo dell’organizzazione internazionale.
La strategia
In tutti e tre i casi la strategia adottata dalle autorità russe è stata molto simile: abbracciare le istanze separatiste, sostenerle a livello economico e militare destabilizzando le ex repubbliche sovietiche in modo tale da tenere un certo tipo di controllo politico e territoriale. Nel mentre, gli Stati Uniti, la Nato e i leader dell’Unione europea si sono limitate a dichiarazioni di condanna o a introdurre sanzioni commerciali, che fino ad oggi non hanno preoccupato più di tanto Putin e i suoi oligarchi.
© Riproduzione riservata