- Il «Game» è come chiamano il viaggio dai campi della Bosnia fino all’Unione europea, ma percorrerlo non è un gioco: servono provviste ed equipaggiamenti. Un’economia ombra è sorta intorno ai campi per fornirglieli.
- Costruito dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) e finanziato dall’Unione europea insieme ad Austria, Svizzera, Italia e Vaticano il campo di Lipa è nuovo di zecca.
- «I migranti che abitano a qui a Lipa non possono andare da nessuna parte durante il giorno. Se non ci fossero nemmeno questi tre o quattro baracchini che abbiamo aperto non gli resterebbe definitivamente nulla», fa notare Dragan (nome di fantasia), commerciante da una manciata di mesi soltanto
Dalle finestre del negozio di Izet (nome di fantasia) si vede la lunga fila di container del nuovo campo di Lipa, Bosnia-Erzegovina nord occidentale, a meno di 40 chilometri dal confine con la Croazia. Inaugurato a 11 mesi dall’incendio che, il 23 dicembre 2020, poco più di un anno fa, ha raso al suolo la precedente struttura, il centro è destinato a ospitare 1500 “single men”, ma al momento solamente 400 si sono ufficialmente insediati lì.
E il bosniaco Izet, che ha scelto di costruire la sua attività improvvisata proprio sull’area desolata che circonda le inferriate del nuovo campo, aspetta il momento in cui sarà raggiunta la massima capienza per vedere gli affari fiorire come una volta. «Le cose andavano meglio qualche tempo fa, quando i flussi erano più intensi. Adesso che ci sono meno migranti, nessuno di noi riesce a vendere abbastanza. Aspettiamo di vedere cosa succederà».
I «Game shop»
Gli scaffali del suo negozio tracimano di maxi pacchi di patatine e altri generi alimentari a lunga conservazione. Ma non manca una sezione dedicata alle tute mimetiche e alle coperte, ai power bank per caricare gli smartphone e, soprattutto, alle scarpe. Tutte cose che fanno parte del kit irrinunciabile per chiunque voglia tentare quello che qui chiamano il «Game», l’escursione d’azzardo tra i confini dei Balcani per raggiungere l’Europa.
«La maggior parte non ce la fa ad attraversare le frontiere, viene ricacciata indietro dalla polizia. Molti tornano dal Game senza più nulla, con ancora più bisogno di cose. Gliele do anche se non possono pagare». Su un taccuino che tiene sotto al registratore di cassa, Izet prende scrupolosamente nota di tutti i debiti che i migranti hanno maturato nei suoi confronti. Sfoglia pagine zeppe di cifre e nomi su cui, nella gran parte dei casi, non verrà mai tirata una riga di cancellatura.
«A volte sono io a perderci dei soldi. Ma cosa devo fare? Vanno aiutati. Sono brave persone». È difficile avere informazioni più precise sull’ingranaggio nascosto che rende possibile questa politica commerciale in cui chi vende non sempre guadagna. Su come sia possibile aprire e mantenere un’attività alle condizioni imposte da Lipa, nucleo abitativo circondato da vallate di sterpaglie e di nulla, avulso da ogni servizio o residuo di civiltà. La frattura che divide campo e città si è ulteriormente allargata dopo che è stata introdotta una delle tante misure anti-migranti, il divieto per loro di salire sugli autobus. Per questo gli uomini che hanno bisogno di raggiungere Bihać sanno di doversi mettere in cammino per una trentina di chilometri.
L’altra faccia
Costruito dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) e finanziato dall’Unione europea insieme ad Austria, Svizzera, Italia e Vaticano il campo è nuovo di zecca, acclamato da rappresentanti internazionali e locali come la prova che, con un po’ di diplomazia e di capitali stranieri, i risultati possono essere raggiunti. Perfino in un paese come la Bosnia-Erzegovina, reso fragile da anni di frammentazione amministrativa e attualmente devastato da una retorica secessionista in cui molti sentono gli echi di un possibile nuovo conflitto.
Ma il Temporary reception center, come è definito ufficialmente il campo inaugurato lo scorso 19 novembre, non rappresenta una storia riuscita del tutto, poiché trascina con sé il limite strutturale che caratterizzava quello precedente: lo scollamento da ogni rete di servizi. Ed è nell’intercapedine di questa esclusione misurabile in termini spaziali ma dai risvolti profondamente politici e sociali che sorgono le avventure commerciali di quei bosniaci per anni rimasti senza un vero impiego, uomini e donne che rappresentano l’altra faccia della questione migratoria, quella di chi ha trovato nella disperata condizione dei profughi una strada per alleviare almeno un po’ la propria.
Bloccati
«I migranti che abitano a qui a Lipa non possono andare da nessuna parte durante il giorno. Se non ci fossero nemmeno questi tre o quattro baracchini che abbiamo aperto non gli resterebbe definitivamente nulla», fa notare Dragan (nome di fantasia), commerciante da una manciata di mesi soltanto. «La sera, alla fine del turno, non rientro in città, non ne ho motivo. Passo la notte nella struttura che mi ha messo a disposizione il mio capo, proprio qui, accanto al negozio».
Così la sua quotidianità trascorre nell’attesa di vedere qualche acquirente varcare la soglia delle quattro lamiere tra cui ha stipato le merci. «A volte faccio amicizia coi ragazzi del campo, ascolto le loro lamentele. Non sono pericolosi come credono i cittadini di Bihać, che non vogliono vederli più per strada perché dicono che fumano e bevono troppo. Non è vero. Io sono qui da mesi e non ho mai avuto problemi».
La casa vera
Gli improbabili slogan promozionali che campeggiano fuori dalle “porte” dei negozi e le insegne come “Game Shop” affisse per dare indicazioni che non occorrono, accentuano l’atmosfera dell’assurdo e di normalità pretesa che grava sull’altipiano di Lipa. «Mi piace anche prendermi cura degli animali della zona», specifica Dragan, indicando un cumulo di coperte per terra da cui ogni tanto sbuca la testa di qualche gatto.
Per confermare la sua passione per i felini, con la mente esce per un attimo dal microcosmo di Lipa. Tira fuori il telefono, apre la galleria delle immagini. «Ecco, questo è il mio gatto, quello veramente mio, ma non lo vedo da un po’. È nella mia casa, quella vera».
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