Filosofo, docente all’Università di Haifa, il professore da anni è impegnato in un dialogo critico col mondo arabo in un’ottica di risoluzione del conflitto israelo-palestinese
Professor Cohen Skalli, il 7 ottobre ha mostrato certamente carenze nell’apparato di sicurezza israeliano, ma ha rimesso in moto quadri geopolitici, processi storici e culturali che si pensava avessero raggiunto una qualche forma di stabilità nella cornice degli Accordi di Abramo. Partiamo dalle cause più dirette. A suo giudizio cosa ha giocato un ruolo maggiore: le falle nel sistema di sicurezza o una rimozione generale da parte della società israeliana della questione palestinese, che, dalla Seconda intifada in poi, è sembrata sempre più marginalizzata in Israele?
I massacri del 7 ottobre possono essere compresi in modi diversi e a diversi livelli. Li considero come la conseguenza orribile di un processo più lungo. Dopo la Prima intifada (1987-1993), la caduta del Muro di Berlino (1989) e il presunto trionfo americano, si è creata una finestra di opportunità per un processo politico tra Israele e l’Olp. La logica di questa trasformazione strategica all’interno della politica israeliana e palestinese era la constatazione che lo scontro perenne non poteva garantire il raggiungimento degli obiettivi principali dei movimenti nazionali ebraici e palestinesi (uno Stato ebraico sicuro e uno Stato palestinese). Tuttavia, questo nuovo realismo dei due vecchi establishment nazionalisti era solo una parte del quadro più ampio. Sia in Israele che nel mondo arabo-musulmano, gli anni Settanta e Ottanta videro un rapido sviluppo dell’islam politico e dei movimenti politici religiosi ebraici, che sfidavano sempre più i principi fondamentali del nazionalismo arabo ed ebraico e costituivano un’alternativa spesso trascurata al nuovo realismo dei vecchi establishment nazionalisti. Così, mentre il processo di pace si sviluppava con molti alti e bassi negli anni Novanta e Duemila, le alternative islamiste e religiose ebraiche crescevano e guadagnavano terreno.
Il crollo del processo di pace, la Seconda intifada e le successive guerre in Cisgiordania e Gaza rivelarono la debolezza dei vecchi establishment nazionalisti recentemente convertiti al processo di pace. Dimostrarono anche che qualsiasi soluzione politica del conflitto doveva tenere conto delle posizioni dei movimenti politici religiosi musulmani ed ebraici, un fatto che avrebbe reso impossibile qualsiasi accordo riguardante la divisione di Palestina-Israele e Gerusalemme. Emerse una nuova politica basata su un’alleanza tra i movimenti nazionalisti ebraici e arabi indeboliti e i crescenti movimenti politici religiosi. La figura emblematica di questa nuova alleanza è il primo ministro Benjamin Netanyahu, che ha forgiato un’alleanza con il sionismo religioso e i partiti ortodossi, che gli ha permesso progressivamente di abbandonare il processo di pace con l’Autorità palestinese, a favore di una politica che privilegia accordi ad hoc con Hamas. Netanyahu e Hamas hanno entrambi strumentalizzato il loro antagonismo, mantenendo un equilibrio di terrore e interessi. Il 7 ottobre questo equilibrio è crollato.
La società israeliana sta subendo da tempo una trasformazione demografica e sociale che muterà il volto dello Stato ebraico nei prossimi decenni. A vederla oggi, sembra avviata verso una frattura sempre più ampia fra una componente liberal e una tradizionalista-religiosa. Come si immagina Israele fra 20 anni?
Non vedrei la novità nella presenza di questi due schieramenti quanto in un loro nuovo equilibrio.
Dalla fine del processo di Oslo a Camp David nel 2000 e la successiva Seconda intifada, le basi ideologiche del campo della pace o liberale sono state profondamente scosse. L’idea che il sionismo avrebbe infine portato a uno Stato ebraico democratico accettato in Medio Oriente è stata considerata ingenua da ampi settori della società israeliana. Tutto ciò ha offerto l’opportunità per un attacco senza precedenti contro questi principi da parte di un’ampia gamma di partiti e gruppi di opinione, al fine di instillare una nuova concezione secondo la quale l’orizzonte storico di Israele non è più il cammino progressivo verso la pace e la democrazia, ma una lotta costante tra due religioni e popoli senza altra risoluzione che quella messianica e apocalittica. Questa concezione ha trovato nuovo supporto nei nuovi mezzi tecnologici e militari (come il sistema Iron Dome, ecc.) che hanno allontanato il conflitto dalla vita quotidiana della maggior parte degli israeliani.
Per guadagnare slancio, molti attori dell’ex campo della pace e liberale hanno iniziato ad adottare parti della narrativa rivale. La figura emblematica è Ehud Barak, che dopo i negoziati falliti a Camp David ha dichiarato: «Non c’è un partner». Tuttavia, credo che il colpo più duro sia venuto dalla sfida esterna alle democrazie da parte di Stati autoritari e dalla sfida interna rappresentata dalle nuove leadership populiste. Improvvisamente, la pace e la democrazia liberale non sono più apparse come la scelta ovvia per una parte sempre più ampia della popolazione israeliana. I partiti religiosi e di destra hanno capitalizzato su questa nuova alternativa globale al liberalismo e sono riusciti a conquistare progressivamente parti sempre più grandi del sistema statale e dell’esercito.
Anche il mondo arabo sembra procedere nelle proprie fratture secolari, con i gruppi religiosi e tradizionalisti come la Fratellanza musulmana, e suoi derivati come Hamas, da tempo in rotta di avvicinamento verso l’Iran sciita perché repressi dai governi sunniti, pronti a sviluppare partnership con Israele.
Non crede che un patto politico come gli Accordi di Abramo avrebbe dovuto essere accompagnato da un’elaborazione culturale capace di reinterpretare le relazioni con l’ebraismo e con l’idea di Stato ebraico verso cui le masse arabe sono ancora ostili?
Per il poco spazio che abbiamo, basti dire che i paesi associati al nazionalismo arabo (Egitto, Iraq e Siria) si trovano in una condizione difficile, se non peggio. D’altra parte, solo in Turchia il nazionalismo è stato sostituito dall’ideologia dei Fratelli musulmani.
Ci troviamo quindi di fronte a un mondo arabo composto da attori nazionalisti indeboliti e dalle monarchie musulmane conservatrici della penisola arabica. Israele dovrebbe stringere un’alleanza con queste monarchie. Tuttavia, lo scontro con l’Iran e i suoi proxy serve alla destra israeliana per evitare qualsiasi discussione riguardante il prezzo (uno Stato palestinese) di un’alleanza con le monarchie sunnite.
Tornando all’oggi, Netanyahu pare insensibile alle enormi pressioni interne ed esterne. Hamas procede nella strategia del martirio del proprio popolo come mezzo di pressione sui governi musulmani per farli intervenire nel conflitto. Come immagina si possa sbloccare la situazione?
L’unica via d’uscita ragionevole dalla tragedia attuale è un nuovo governo in Israele disposto a concludere un accordo che ponga fine al conflitto a Gaza, preveda il rilascio degli ostaggi israeliani e dei prigionieri palestinesi, e avvii una difficile negoziazione con il Libano.
Siamo ancora molto lontani da questo scenario. Tuttavia, si spera che un simile passo possa portare a un maggiore controllo della politica palestinese e libanese da parte di gruppi non islamisti.
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