L’artefice della “Nuova èra” della Cina, benevolente verso il suo popolo come un moderno imperatore, si è presentato in pompa magna ai governi africani come leader dei paesi, con storia e interessi molto diversi, che Pechino accomuna come “Sud globale”. È così che lo scorso fine settimana Xi Jinping ha ricevuto nella Grande sala del popolo i capi di stato e di governo di 53 stati del Continente nero (mancava solo il piccolo eSwatini, perché riconosce ufficialmente Taiwan) in quello che per la Cina è stato il principale evento diplomatico del 2024, il IX Forum sulla cooperazione Cina-Africa (Focac), il più importante dalla sua istituzione nel 2000.

Per le promesse e le proposte messe sul tavolo dalla seconda economia del pianeta nei confronti dell’Africa, che con i suoi 1,4 miliardi di abitanti in gran parte giovani rappresenta tuttora soltanto il 2,7 per cento del prodotto interno lordo (Pil) globale; e perché, dopo quello del 2021 (in piena pandemia), è stato il primo Focac a svolgersi nel nuovo contesto geopolitico di contrapposizione dichiarata tra Pechino e Washington.

Nel discorso con il quale ha aperto il Forum, Xi ha promesso all’Africa 50 miliardi di dollari per i prossimi tre anni: linee di credito, investimenti da parte delle compagnie cinesi e altre forme di aiuto. Meno di quanto messo in campo dopo l’annuncio (nel 2013) della Belt and Road Initiative (Bri): nel 2015 e nel 2018 Pechino aveva mobilitato 60 miliardi di dollari. Ma un netto aumento rispetto al 2021 – quando Pechino aveva stanziato 40 miliardi di dollari –, soprattutto considerando il rallentamento della crescita dell’economia nazionale.

L’Africa ha insomma per la Cina un valore altamente strategico, che Xi ha rivendicato davanti ai vertici politici continentali e al segretario generale delle Nazioni unite, António Guterres, sostenendo che il rapporto tra Cina e Africa è «al punto più elevato della storia e che «la ricerca congiunta di modernizzazione da parte di Cina e Africa darà il via a un’ondata di modernizzazione nel Sud del mondo».

Il debito rimane

Come in occasione dei precedenti Focac, Pechino ha rinunciato alla restituzione di debiti senza interessi, questa volta a favore di 33 stati. Si tratta dei prestiti erogati dall’agenzia governativa deputata agli aiuti esteri, che tuttavia rappresentano solo una piccola porzione (circa il 5 per cento) del totale di quelli concessi dalla Cina all’Africa, la maggior parte dei quali sono gestiti da China Exim Bank e China Development Bank. Decisamente poco per un continente che dovrebbe rimborsare soltanto quest’anno 163 miliardi di dollari, e con un debito estero pari a 1.150 miliardi di dollari.

Alle critiche sulla cosiddetta “trappola del debito” Pechino risponde che il fardello che grava sullo sviluppo dei paesi africani necessita di una soluzione comune, che va trovata di concerto con gli altri creditori. Di certo la Cina è diventata il primo prestatore bilaterale dell’Africa – nei confronti della quale vanta circa 80 miliardi di dollari di crediti – e spetta anche a Pechino, oltre che alla Banca Mondiale, trovare soluzioni che allevino sostanzialmente questo peso insostenibile per i paesi del continente.

Tra misure annunciate figurano l’invio di 2.000 medici, di 500 agronomi e l’accoglienza a Pechino di un migliaio di funzionari dei partiti africani che (come abbiamo raccontato su Domani) verranno istruiti sui princìpi della governance cinese, ovvero quel misto di autoritarismo e tecnocrazia che dovrebbe favorire la “stabilità” politica in un continente costantemente scosso da golpe. Inoltre, tutti e 33 i paesi meno sviluppati (Ldc) dell’Africa potranno usufruire dell’esenzione dai dazi sul commercio con la Cina riservata finora a 27 stati.

Industria green

L’Africa ha un deficit infrastrutturale stimato in 100 miliardi di dollari all’anno e ha bisogno di reti di trasporto efficienti per far funzionare la African Continental Free Trade Area (Acfta) istituita nel 2018 sotto l’egida dell’Unione africana. A tal fine Pechino ha messo sul tavolo una trentina di nuovi investimenti infrastrutturali, che serviranno soprattutto a migliorare il commercio. Come, ad esempio, la linea (una delle tante) che la compagnia di stato China Railway Construction Corporation sta costruendo nel Sahara algerino fino alla frontiera marocchina, per collegare alla rete ferroviaria le maggiori miniere di ferro del mondo, quelle di Gara Djebilet (3,5 miliardi di tonnellate di riserve stimate).

Ma i tradizionali grandi investimenti infrastrutturali e nelle materie prime del continente (soprattutto minerali essenziali nella manifattura hi-tech e petrolio) saranno d’ora in avanti affiancati da un’attenzione maggiore allo sviluppo industriale e all’energia pulita. Compreso il nucleare, con l’offerta al Niger – che per la Francia ha rappresentato tradizionalmente un serbatoio di uranio – di costruire centrali atomiche per produrre elettricità in Africa occidentale. Ma anche energia rinnovabile, eolica e solare, settori nei quali la Cina è leader globale. Secondo Goolam Ballim, capo della ricerca presso la Standard Bank del Sudafrica, «i risultati del vertice Focac segnalano uno slancio per i progetti verdi e in particolare per gli impianti di energia rinnovabile».

L’altra novità è il tentativo dichiarato di voler contribuire all’industrializzazione di un continente giovane, dalle tante potenzialità inespresse. In questa direzione Xi ha promesso che la Cina creerà almeno 1 milione di posti di lavoro, avviando progetti di cooperazione in materia di energia pulita e tecnologia digitale e lanciando un «programma di rafforzamento delle piccole e medie imprese africane». Il piano d’azione 2025-2027 pubblicato al termine del Focac ha designato il 2026 anno degli scambi tra popoli Cina-Africa: per l’occasione Pechino inizierà a inviare in Africa docenti di materie Stem (scienza, tecnologia, ingegneria, matematica) per insegnare in scuole modello e per istruire docenti locali. Winston Mok, un ex consulente di McKinsey, ha ipotizzato che la Cina possa lanciare «un programma di portata e impatto molto maggiori rispetto ai Peace Corps statunitensi avviati dal presidente John F. Kennedy nel 1961».

Beijing consensus

Certamente alcune promesse resteranno disattese, tuttavia va notato come il Focac, che si riunisce ogni tre anni (in Cina o in un paese africano), sia diventato un’altra importante tessera del mosaico che sta scardinando il vecchio ordine globale sotto la spinta dell’avanzata cinese: come il gruppo di paesi Brics, la nuova via della Seta (Bri), la Shanghai Cooperation Organization e le nuove istituzioni finanziarie internazionali guidate da Pechino.

È nel nuovo contesto internazionale e interno alla Cina che va valutata la nuova postura del gigante asiatico nel Continente nero. Non più, come nel recente passato, semplicemente guidata dalla necessità dell’accaparramento di materie prime necessarie per mandare avanti la macchina industriale cinese, accompagnata dall’alleanza con le élite locali (indipendentemente dal loro colore politico), come da tradizione post-maoista.

Nel quadro della nuova contrapposizione con un occidente che le ha chiuso parzialmente le porte, l’Africa (così come l’America latina, il Medio Oriente e la Russia) diventa sempre più importante sia per il commercio (173 miliardi di export e 109 miliardi di importazioni nel 2023) e per gli investimenti, sia per le relazioni politiche della Cina con paesi stanchi o apertamente contestatori del Washington consensus e pronti a sposare il Beijing consensus.

La Cina non è Babbo Natale, il governo di Pechino spinge le sue compagnie di stato all’estero a caccia di profitti e per farle diventare corporation in grado di competere sui mercati internazionali con quelle dei paesi più avanzati.

Eppure rispetto ai paesi ex coloniali si muove diversamente, in un modo che si sta rivelando più efficace: senza legare a “condizionalità” politiche i suoi aiuti, finora senza eserciti, e vendendo al meglio la sua retorica “win-win”.

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