La durissima operazione che l’esercito israeliano sta conducendo a Jenin e Tulkarem rivela delle linee di faglia interne alla società israeliana, che, in parte, spiegano questo stallo senza scopo in cui si è tramutata la guerra di Gaza
La durissima operazione che l’esercito israeliano sta conducendo a Jenin e Tulkarem rivela delle linee di faglia interne alla società israeliana, che, in parte, spiegano questo stallo senza scopo in cui si è tramutata la guerra di Gaza. L’operazione in atto in Cisgiordania è resa possibile da almeno tre sensibilità diverse.
La prima è senz’altro l’assodata necessità del premier Netanyahu a spingere la lattina un po’ più in là. Se, per estendere il tempo fosse necessario estendere lo spazio, ben venga l’allargamento del conflitto. Stando attenti a non tirare troppo la corda con la Casa bianca. Tradotto: a non costringerla ad intervenire provocando un intervento iraniano, unico fattore in grado di incidere direttamente sugli interessi americani nell’area. Non si tratta solo di proteggersi dai processi. Netanyahu ha da tempo sviluppato una vera e propria sindrome paranoica, che lo ha portato in guerra permanente con gli altri poteri dello Stato. Non escludo affatto che in un angolo della sua mente si annidi l’idea che lo stesso 7 ottobre sia frutto di un complotto ordito ai suoi danni da una parte di Hamas, con cui il premier aveva rapporto di scambio consolidato, e parte dei vertici dell’Idf e dello Shin bet. Cosa che spiegherebbe, seguendo questa ricostruzione, l’apparente impreparazione che ha permesso il pogrom di Hamas.
Seconda viene la convinzione degli apparati militari di trasformare l’attacco subito in un ridisegno del Medio Oriente, accertata ormai l’impossibilità di vivere a fianco a vicini che ogni giorno minacciano di farti sparire. Non si deve scordare che l’area coinvolta è da anni incubatrice di teorie terroriste. Esigenze, a mio parere, più che comprensibili, almeno quanto considero miopi i progetti di ridisegnare l’area manu militari. Quando fu tentato, in Libano nel 1982, finì malissimo. L’arma per avere le agognate garanzie è il lavoro diplomatico con un mondo sunnita interessato a stringere sempre più i legami con lo stato ebraico.
La terza sensibilità, manco a dirlo, è quella del sionismo religioso, che rappresenta circa il 10 per cento della società israeliana, ma che ha implementato la propria influenza grazie al patto satanico stipulato con Netanyahu. Ci fu un tempo in cui l’ideologia sionista-religiosa rappresentava un braccio teso verso la componente laica ebraica. Basti vedere il grandissimo tentativo di sintesi fra vecchio Yishuv (il primo insediamento ebraico in Palestina risalente alla notte dei tempi) e nuovo Yishuv (l’insediamento derivato dalle spedizioni dei chalutzim, pionieri laicissimi, nei primi del ‘900) condotto dal suo fondatore Rav Avraham Yitzhaq HaCohen Kook. Per me la mano tesa di Rav Kook rifiutata dal mondo laico e dal mondo charedì (la componente religiosa non sionista che oggi fa traballare il governo per la legge sulla leva militare) resta un’occasione sprecata, di cui ancora oggi lo Stato sconta le conseguenze.
L’ideologia sionista-religiosa vira nel ’67, con un famoso discorso del figlio ed erede spirituale di Rav Kook, Zvi. Rivolgendosi agli abitanti dei nuovi insediamenti, Zvi Kook li arringò decretando l’impossibilità di cedere una terra che appartiene a Dio stesso. Teoria speculare a quella dei movimenti messianici musulmani. Da qui partì un vero e proprio progetto espansionistico, alimentato da tutto ciò che offriva il contesto, compreso il carovita delle città israeliane che suggeriva di trasferirsi in Cisgiordania. Si dice che Sharon, dopo lo sgombero da Gaza, avesse in mente un piano di evacuazione anche per i coloni della West Bank, influenzato dalle teorie del demografo italo-israeliano Sergio Della Pergola, per cui sarebbe stato impossibile in una grande Israele mantenere carattere ebraico e democratico insieme.
Fatto sta che la sua morte e la terribile seconda intifada scandita da una serie infinita di attacchi kamikaze hanno aperto la strada al regno di Bibi, che ha trasformato il Likud in un partito personale. In tutto questo, l’opposizione è scomparsa col tramonto del Partito laburista, condannato dal no di Arafat al piano Barak del 2000. Finché non comparirà un nuovo leader capace di affrontare il tema dei confini dello Stato si andrà avanti per violenze reciproche fino ad un conflitto più ampio, col rischio che la cosiddetta Terrasanta si tramuti nei Balcani del 2000. Sempre che Israele non cada a causa dello sinat chinam, l’odio gratuito interno che già porto alla fine del Secondo Tempio.
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