Cisgiordania, il quarto fronte. O, nella visione israeliana, il quarto corno dello stesso fronte di un unico nemico, l’Iran e le sue propaggini che dal Golfo si estendono fino al Mediterraneo. Il 7 ottobre ha cambiato radicalmente la linea dello Stato ebraico, tornato dopo il pogrom subìto alla dottrina militare dell’attacco preventivo.

Fu così in primavera su Teheran, la settimana scorsa con le bombe sulle postazioni di Hezbollah, ora nei Territori occupati dove si sono radicate alcune cellule che agli ayatollah fanno riferimento.

Israele contro l’intero universo sciita, se si aggiunge la Siria con cui i rapporti sono pessimi da sempre, in nome di una soverchiante supremazia bellica che ha convinto sino ad oggi la classe dirigente di Teheran a non reagire o a farlo solo con azioni puramente dimostrative per non perdere la faccia (ma fino a quando?).

La scommessa di Benjamin Netanyahu, una scommessa che cambia il volto del Medio Oriente oltre che il senso stesso della sua politica perseguito fino alla carneficina di Hamas nei kibbutz, è evidente. Ridurre all’impotenza la minaccia sciita e contemporaneamente fare un favore ai sunniti capeggiati dall’Arabia Saudita e rivali degli sciiti per non essere isolati nella regione e ridisegnare il quadro delle alleanze.

Netanyahu si era sempre vantato di non avere mai cominciato una guerra. Alcune circostanze esterne favorevoli gli avevano permesso di conservare quanto più gli era caro, lo status quo con l’occupazione senza fine della Cisgiordania in un Paese che cresceva dal punto di vista economico mentre i vicini, tra primavere arabe e sfida dello Stato islamico all’occidente, erano in altre faccende invischiati.

La sua lunga esperienza da premier era fortemente minacciata dalle inchieste per corruzione a cui era sottoposto oltre che dalla ribellione interna per l’annunciata legge che avrebbe dovuto assoggettare il potere giudiziario a quello politico. Il 7 ottobre ha stravolto lo scenario. Bibi si è reso conto che la mancata soluzione del problema palestinese non ha fatto altro che incancrenirlo. Così si è messo l’elmetto e, siccome non si cambia il comandante in capo durante una crisi, ha tratto dal conflitto il nutrimento per restare in sella secondo il motto per cui finché c’è guerra c’è speranza.

Offuscata dall’enormità di quanto sta succedendo a Gaza, nella dimenticata Cisgiordania i più estremisti tra i coloni israeliani hanno potuto spadroneggiare e si contano in almeno seicento le vittime palestinesi senza che ci sia mai stata se non una blanda condanna da parte di un governo che si regge sui voti decisivi di partiti esplicitamente razzisti ed espressione proprio dei movimenti dei coloni.

Ora tocca all’esercito regolare per quella che viene definita come un’imponente operazione antiterrorismo su larga scala dalla possibile durata di diversi giorni mentre il ministro degli Esteri Israel Katz minaccia di fare «come a Gaza». Le conseguenze sono già evidenti: danni collaterali, tradotto vittime civili; sgombero della popolazione palestinese per non interferire nella caccia alle cellule filo-iraniane; solita condanna sterile da parte delle Nazioni unite.

Quali saranno gli esiti è ancora da capire. Intanto per eterogenesi dei fini l’ala combattente di Fatah, il movimento laico che fu di Yasser Arafat, si è affiancata ai miliziani di Hamas e della Jihad islamica nel tentativo di contrastare l’offensiva delle truppe di Tsahal, in nome di un’unità delle formazioni palestinesi che non si ricorda da tempo immemorabile. C’è poi da capire come reagirà l’Iran a questo ennesimo schiaffo.

Senza considerare che nemmeno l’Arabia Saudita potrà a lungo rimanere zitta. Benché alcuni gruppi combattenti palestinesi siano stati attratti dall’orbita sciita, i palestinesi stessi sono pur sempre sunniti e la loro nazione di riferimento nella regione non si può permettere di abbandonare i correligionari.

Tanto più perché, quando ancora non tuonava il cannone, Riyad aveva subordinato la sottoscrizione degli Accordi di Abramo con Israele alla nascita di uno Stato palestinese da sempre rifiutata da Netanyahu. È indubbio inoltre che le molte campagne militari stiano alimentando l’odio antiebraico da parte anche della nuova generazione di palestinesi o di quel che ne rimane. Mentre nel mondo intero cresce l’insofferenza per gli atteggiamenti muscolari di Israele.

Si fa in fretta a bollarlo come antisemitismo quando invece si tratta, nella stragrande maggioranza dei casi, di contestazione della politica dell’esecutivo di Tel Aviv. Dopo le guerre, anche con questo bisognerà fare i conti.

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