Donald Trump è l’uomo che Netanyahu vorrebbe veder tornare alla Casa Bianca. Artefice degli Accordi di Abramo, il tycoon ha rotto con la politica americana tradizionale, riconoscendo Gerusalemme come capitale di Israele e trasferendovi l’ambasciata. In caso di vittoria lascerebbe a Bibi carta bianca per “finire il lavoro”
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Se dovesse vincere Donald Trump alle elezioni presidenziali del 5 novembre cosa accadrebbe nei rapporti tra Washington e Tel Aviv e, più in generale, quale sarebbero le linee guida della politica dell’inquilino repubblicano della Casa Bianca verso il Medio Oriente?
Prima di rispondere al quesito bisogna ricordare che Joe Biden continua a garantire il suo sostegno militare a Israele anche contro l'Iran ma è sempre più irritato ed esasperato dal comportamento dal premier israeliano, Benjamin Netanyahu, che affonda da mesi i suoi sforzi per una tregua approfittando della sua debolezza di lame duck ormai a fine mandato e dell'ultimo mese di campagna elettorale americana.
È evidente che Netanyahu spera che rivinca il suo amico Donald Trump con cui avrebbe una maggiore sintonia su come ridefinire gli equilibri di potere nella regione a discapito dei palestinesi e del regime di Teheran, la «testa del serpente», secondo la definizione del capo del Likud.
Trump non è rimasto in silenzio sul tema della conduzione degli aiuti a Israele. Mentre Joe Biden aveva convocato il consiglio per la sicurezza nazionale con la sua vice per affrontare la minaccia dell'attacco di Teheran e dalla Situation Room ha ordinato all'esercito Usa di abbattere i missili iraniani, Trump ha attaccato entrambi: «Il mondo è in fiamme e sta andando fuori controllo. Non abbiamo una leadership, nessuno che gestisca il Paese. Abbiamo un presidente inesistente, Biden, e una vicepresidente completamente assente, Kamala Harris, che è troppo impegnata a raccogliere fondi a San Francisco... e a organizzare finte foto opportunity. Nessuno è al comando e non è nemmeno chiaro chi sia più confuso: Biden o Kamala». Parole da campagna elettorale, ma che mettono a nudo la difficoltà dei democratici di costruire un rapporto solido con il Likud, il partito di Benjamin Netanyahu.
Le parole di Kushner
In realtà la linea di Trump è stata rivelata, in modo indiretto, dal genero del candidato repubblicano, Jared Kushner in occasione dell'uccisione di Hassan Nasrallah e dell'escalation militare in Libano. In quell’occasione sia Joe Biden che Kamala Harris, si sono rivelati allineati nel considerare l'eliminazione del capo di Hezbollah come una «forma di giustizia» per le sue numerose vittime tra cui alcuni americani, ma convinti della necessità di perseguire la via diplomatica per evitare l'escalation in Medio Oriente.
Una linea della cautela bocciata dallo speaker repubblicano della Camera, Mike Johnson e da vari leader repubblicani, che in una dichiarazione hanno invitato l’amministrazione Biden-Harris «a porre fine alle sue controproducenti richieste di cessate il fuoco e alla sua continua campagna di pressione diplomatica contro Israele», definendo la morte di Nasrallah «un importante passo avanti per il Medio Oriente».
Donald Trump, invece, astutamente non si è espresso direttamente sulla vicenda ma, come anticipavamo, è uscito allo scoperto Jared Kushner, suo genero e consigliere quando era alla Casa Bianca (con delega per il Medio Oriente), elogiando l'assassinio del capo della milizia sciita come «il giorno più importante in Medio Oriente dalla svolta degli Accordi di Abramo» da lui stesso mediati. E invitando Israele a finire il lavoro: «Chiunque abbia chiesto un cessate il fuoco nel nord si sbaglia. Non c'è ritorno per Israele. Non possono permettersi ora di non finire il lavoro e smantellare completamente l'arsenale che è stato puntato contro di loro. Non avranno mai un'altra possibilità», ha scritto Kushner in un post su X subito ritwittato dall'ex ambasciatore in Israele David Friedman e da altre voci influenti del mondo "Maga”. Parole molto chiare che non lasciano molto spazio all’interpretazione del loro significato politico.
Gli accordi di Abramo
Sotto la presidenza degli Stati Uniti Donald Trump nel 2020, Israele ha raggiunto gli accordi noti come “Accordi di Abramo” per normalizzare i legami con diversi stati arabi, tra cui gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrein e il Marocco.
Trump è stato il protagonista degli Accordi Abramo, quelle intese tra paesi del Golfo e Israele in funzione anti-Iraniana e del trasferimento dell'ambasciata americana a Gerusalemme. Gli accordi di Abramo sono una dichiarazione congiunta tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Stati Uniti, raggiunta il 13 agosto 2020. Poi si sono aggiunti il Bahrein, il Marocco e il Sudan.
Nel caso del Marocco, aderire ha significato vedersi riconosciuta la sovranità sul Sahara Occidentale, conteso dal Fronte Polisario, sostenuto dall’Algeria.
Il Sudan è stato cancellato dalla lista americana degli stati sponsor del terrorismo oltre a ottenere un pacchetto di aiuti finanziari.
Israele, a sua volta, si era impegnato a congelare gli insediamenti dei coloni nei territori e a tenere aperta, almeno formalmente, l'ipotesi dei due popoli, due stati.
L'Arabia Saudita era in procinto di aderire agli accordi ma l'attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 ha bloccato il processo di adesione sine die. Resta il fatto che con gli accordi di Abramo, alcuni stati arabi sunniti hanno riconosciuto in Israele lo stato che li possa difendere militarmente dall’Iran sciita, sostituendo, almeno parzialmente, il gendarme americano.
Non va dimenticato che Donald Trump in passato ha rotto con la politica americana tradizionale riconoscendo Gerusalemme come capitale di Israele e trasferendovi l’ambasciata. Una mossa che ha profondamente urtato i palestinesi che rivendicano Gerusalemme Est come capitale del loro futuro Stato.
Con queste premesse appare evidente che nei rapporti con Israele, la seconda amministrazione Trump sarebbe all’insegna della continuità con la precedente e di pieno sostengo del governo di Tel Aviv nelle sue rivendicazioni sui Territori occupati e di ostilità alla soluzione dei due stati.
Una scelta di campo molto netta che ha messo in difficoltà la candidata democratica, costretta a sfumare la sua posizione in materia.
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