Per il presidente è un anno decisivo: deve costruire una forma politica dopo gli anni della distruzione e dell’istinto. Avrà le mani legate sull’immigrazione e insolubili conflitti da governare. E poi c’è il suo ingombrante alleato
Il 2025 sarà l’anno decisivo per Donald Trump. È questo il momento cruciale in cui il presidente che si insedia alla Casa Bianca il 20 gennaio avrà la possibilità di costruire un’architettura politica stabile su quella forza magmatica e distruttrice che è stato finora il trumpismo.
Trump ha sventrato la politica dell’establishment, ha gettato acido sul volto del Partito repubblicano, ha desacralizzato la figura presidenziale, ha volgarizzato il discorso pubblico, ha sdoganato la violenza politica, ha piegato le istituzioni a suo vantaggio, è stato incriminato, condannato e se n’è felicemente infischiato, è sopravvissuto ad attentati, ha messo insieme una nuova coalizione elettorale, ha costretto antichi avversari a diventare, per necessità o convinzione, alleati o interlocutori disponibili all’ascolto. Ora ha l’opportunità storica di dimostrare che il suo sconvolgente avvento sulla scena politica non è stato soltanto un’anomalia della storia.
Il 2025 è un anno fatale anche perché il presidente ha dalla sua parte sia la Camera che il Senato, circostanza rara che sarà messa in discussione già nelle elezioni di midterm del 2026. I cicli elettorali americani sono brevi e il presidente governa con la consapevolezza di non avere tempo: deve muoversi con rapidità per sperare di portare a casa qualche risultato significativo.
Anche per questo Franklin Delano Roosevelt, incalzato dall’urgenza di contrastare la Grande Depressione, aveva individuato nei primi cento giorni di governo il periodo in cui il presidente si gioca tutto, e la scadenza si è affermata come termine popolare per giudicare l’efficacia dell’azione dell’inquilino della Casa Bianca.
Dal giorno dopo le elezioni Trump ha iniziato a muoversi in fretta per costruire la squadra di governo e impostare il lavoro che verrà. Sa che i primi cento giorni sono fondamentali, e il primo scoglio sarà la conferma dei membri del governo da parte del Senato. Le audizioni iniziano la settimana prossima e Trump a Capodanno ha denunciato «i democratici al Senato che si stanno organizzando per fermare e ritardare il processo di conferma di molte delle nostre Grandi Nomine». Gli avversari, ha avvertito il presidente eletto, «inizieranno molto presto a usare ogni tipo di sotterfugio. I Repubblicani non devono permetterlo».
I conservatori hanno una maggioranza di 53 senatori contro 47 democratici. Alcune delle nomine di Trump riceveranno sostegno bipartisan, ma altre sono così controverse che faticheranno a ottenere la maggioranza semplice. I più complicati sono: Tulsi Gabbard (vertice dell’intelligence), Pete Hegseth (Difesa) e Robert Kennedy Jr. (Sanità). Se anche solo uno di questi non passasse il vaglio del Senato, il presidente comincerebbe il suo 2025 con un grave infortunio.
Ricercare stabilità
Il primo mandato trumpiano è stato un tumulto di emozioni, licenziamenti, litigi, rimpiazzi e pugnalate alle spalle modellato sul genere che aveva praticato nel reality show The Apprentice. La grande sfida del 2025 è dare una forma se non coerente almeno riconoscibile e vagamente duratura al governo. In questo, la madre di tutte le incognite dell’anno di Trump è il rapporto con Elon Musk.
Sarà l’uomo più ricco del mondo il vero comandante in capo? I due andranno d’accordo o finiranno per divorarsi a vicenda? La Casa Bianca sarà abbastanza grande per contenere gli ego strabordanti di questi due personaggi imprevedibili? Dalla risposta a queste domande dipenderà molto del secondo mandato trumpiano.
Durante le vacanze natalizie si è intuito un malumore che potrebbe complicare i rapporti fra i due e potenzialmente lacerare il mondo MAGA, sul tema dell’immigrazione. Musk ha dichiarato il suo totale appoggio al programma che concede visti a lavoratori talentuosi da tutto il mondo, cosa che ha fatto imbufalire gli intransigenti della vecchia guardia trumpiana, che non ammettono eccezioni ai principi dell’America First. Alla fine Trump ha dovuto dare ragione al potente alleato, ma pagando il prezzo di doversi contraddire rispetto alle politiche restrittive messe in atto nel primo mandato e alle promesse di chiusura totale fatte in campagna elettorale.
Anche la famosa “deportazione di massa” degli 11 milioni di clandestini che vivono negli Stati Uniti è in dubbio. Il presidente l’ha promesso, ma si tratterebbe di una delle operazioni di polizia più articolate della storia recente, con la necessità di un dispiegamento massiccio di forze dello stato, cosa che non si concilia affatto con il piano di radicale efficientamento e snellimento della burocrazia che Trump ha affidato proprio a Musk e Vivek Ramaswamy, che guidano Doge, agenzia creata apposta per lo scopo.
Il 2025 porterà in dono al presidente anche queste scelte inevitabili. C’è poi un’ulteriore complicazione di cui talvolta ci si dimentica: il presidente non è a capo del sistema che regola l’immigrazione, autorità che spetta invece al Congresso. È a Capitol Hill che si misurerà la qualità del rapporto fra il presidente e il Partito repubblicano.
Sul taglio alla spesa pubblica, il 2025 porterà probabilmente successi molto limitati a Trump, perché oltre il 70 per cento della spesa federale è legato a welfare, sanità e difesa, voci su cui l’agenzia di Musk non può mettere mano. Il vero obiettivo, questo sì più realistico, è cambiare la natura dei rapporti fra l’amministrazione federale e i suoi dipendenti, così da rendere il pubblico impiego più simile a quello privato. Doge ha una data di scadenza annunciata – il 4 luglio 2026 – dunque l’anno che è iniziato ora è importantissimo per questo ambizioso progetto di riforma.
Dove invece il presidente ha ottenuto nel tempo deleghe più significative rispetto a quelle previste dalla Costituzione è su dazi e tariffe, perno della retorica protezionista e anticinese che Trump potrà mettere in pratica con agio. A meno che non si stata tutta una minaccia per costringere partner e avversari a rinegoziare condizioni commerciali da una posizione di forza.
Politica estera
Sulla scrivania del presidente arrivano scottanti dossier di politica estera: il conflitto in Ucraina, quello in Medio Oriente – complicato dalla caduta del regime di Bashar al Assad in Siria – e lo scontro con la Cina. Quest’anno sarà importante per valutare la postura che Trump intende tenere, al di là degli slogan e degli eccessi da campagna elettorale.
Il presidente ha promesso di concludere istantaneamente il conflitto fra Russia e Ucraina, sostiene di avere un piano per farlo ma nessuno sa quale sia. Si sa soltanto che implica una riduzione del sostegno a Kiev, che quindi sarà verosimilmente in condizioni più sfavorevoli per continuare a combattere e perciò forzata ad accettare eventuali condizioni sfavorevoli in un negoziato.
Il test del Medio Oriente riguarda il rapporto che Trump stabilirà con Benjamin Netanyahu. Il primo ministro di Israele è contemporaneamente un alleato di ferro del presidente e una delle principali ragioni per cui va avanti – allargandosi – un altro conflitto che Trump promette di sedare. Come imposterà le relazioni con l’alleato è un’altra delle incognite fondamentali di quest’anno.
E per il 2025 il presidente cinese, Xi Jinping, ha previsto che l’economia del paese crescerà del 5 per cento, in barba ai dazi già annunciati da Trump per danneggiare l’avversario, a partire dal settore delle automobili. L’annata promette una minacciosa esibizione di muscoli fra le prime due economie del paese, che con il nuovo mandato trumpiano entrano nella fase più bassa delle loro relazioni. Il confronto è economico e commerciale, ma si consolida il timore di una dimensione militare del conflitto, dove la contesa Taiwan con il presidente repubblicano non si sente più la figlia prediletta degli Usa. e «nessuno può fermare l’unificazione con Taiwan», ha avvertito Xi nel discorso di fine anno. Un’altra minaccia nell’anno terribile che si prospetta per Trump.
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