Poco meno di un anno fa, l’emanazione delle nuove politiche agricole europee (PAC) scatenava una protesta che si sarebbe espansa a macchia d’olio in tutta Europa fra i lavoratori dell’agroalimentare, bloccando città e autostrade con schiere di trattori che sarebbero divenuti l’icona di una presunta insofferenza, anzi ostilità, verso ogni accenno a ecologia e transizione.

In realtà, il malessere del settore affondava le radici in ragioni ben più profonde e complesse. Il problema non erano in sé le misure di transizione o per il ripristino degli ambienti degradati, che anzi sul lungo termine saranno di grande aiuto proprio al mondo dell’agricoltura. La questione era semmai il rapporto spesso conflittuale fra sopravvivenza a lungo termine e a breve termine, fra fine del mondo e fine del mese.

La novità danese

Ora in Danimarca sta succedendo qualcosa di nuovo e interessante. Con una scelta non calata dall’alto ma largamente partecipata, infatti, il paese scandinavo ha raggiunto un accordo politico per tassare le emissioni del settore agricolo a partire dal 2030. L’obiettivo è arrivare a tagliarle del 70 per cento nei prossimi anni. L’imposta sarà di 40 euro a tonnellata di CO2 a partire dal 2030, su cui si potrà chiedere una deduzione del 60%. La deduzione verrà persa, di anno in anno, in caso di aumento dell’impatto ambientale della propria azienda. I proventi verranno invece reinvestiti per accompagnare un ampio processo di innovazione dell’agricoltura.

È solo un accordo, deve ancora essere tradotto in legge, i tempi devono essere definiti, ma è stato condiviso da una larga maggioranza dei partiti in Parlamento, dai Verdi ai Conservatori, e nella decisione sono stati coinvolti i diretti interessati. È il risultato di lunghissimi negoziati fra politica, ong e sindacati dei lavoratori che si sono basati sulle proposte di un tavolo di lavoro scientifico.

Per questo l’accordo ha l’aria robusta e affidabile di un progetto serio. È ciò che serve, è così che si devono iniziare a costruire misure volte a stravolgere un intero settore. Stravolgere in positivo, certo, ma comunque stravolgere.

Per ora per Greenpeace Danimarca è «troppo poco e troppo tardi»: si è scelta una tassazione relativamente bassa e la legge entrerà in vigore dal 2030, è vero. Ma è un inizio ed è un inizio importante.

Cosa prevede l’accordo

Si parla di riforestare 250mila ettari di terreni oggi destinati ad allevamenti e di ripristinare 40mila ettari di torbiere. Entrambe, foreste e torbiere, sono ambienti in grado di assorbire moltissima CO2. Non è una cosa da nulla per un paese esportatore di prodotti lattiero-caseari e carne come la Danimarca: non è un caso se il settore da solo produce il 40 per cento delle emissioni nazionali.

Una scelta di questo genere vuol dire accettare di ripensare profondamente l’economia e le priorità di un paese. «È la dimostrazione che si possono fare scelte politiche senza sotterfugi, affrontando di petto il problema enorme rappresentato dagli allevamenti intensivi», osserva Simona Savini di Greenpeace Italia.

Secondo i dati della FAO, l’allevamento contribuisce per il 14,5 per cento alle emissioni totali di gas serra a livello globale. Le percentuali sono ancora più alte se andiamo a guardare nello specifico il metano: l’agroalimentare ne produce il 37 per cento del totale. Il metano incide sul riscaldamento globale molto più dell’anidride carbonica (circa 80 volte tanto), ma dura in atmosfera molto meno, solo una ventina d’anni: tagliare sostanzialmente le emissioni di metano può avere un effetto importantissimo di freno a mano alla crisi climatica.

C’è anche un grosso tema di inquinamento. Secondo recenti dati ISPRA in Italia addirittura gli allevamenti intensivi sono responsabili del 75 per cento delle emissioni di ammoniaca, che è poi la seconda fonte di polveri sottili. Circa 50mila morti premature ogni anno sono dovute a queste polveri sottili e quindi agli allevamenti intensivi – e la maggior parte si concentrano in Pianura Padana.

La proposta di legge in Italia

Greenpeace Italia ha recentemente presentato una proposta di legge che preveda come in Danimarca un tavolo di concertazione fra le parti, per diminuire sensibilmente il numero di animali allevati anche grazie a un fondo specifico per la transizione ecologica. Non sarà facile farla accettare perché, come ribadisce Simona Savini, «in Italia vige la narrazione secondo cui l’allevamento non si può toccare. Ma la scelta danese dimostra che non è vero».

Mettendo in atto a livello europeo misure come queste si potrebbero vedere effetti concreti e a 360 gradi, in tempi relativamente brevi. Significa non solo diminuire le emissioni, ma anche aumentare l’assorbimento di anidride carbonica, ripristinare la biodiversità e quindi la salute e la qualità di acque, aria e terreni. Dunque, delle persone. Sembra impossibile, e invece la Danimarca ci dice una cosa importante: si può fare.

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