Mancano solo due giorni alla fine di Cop29 e in questo punto del vertice sul clima sembra che tutto il peso del mondo stia sulle spalle di Wopke Hoekstra, il capo negoziatore dell'Unione europea, commissario con l'ingrato compito di essere destinatario di troppe domande e di non avere ancora nessuna risposta.

«Non vogliamo arretrare rispetto agli impegni presi alla Cop28 a Dubai e vogliamo continuare a condurre con l'esempio, ma non possiamo pensare ora alla cifra da mettere sul piatto, dobbiamo prima capire cosa ci sarebbe dentro quella cifra».

Il ruolo europeo

Un atteggiamento sulla difensiva dell'uomo che in questo momento è il rappresentante dell'intero occidente davanti ai paesi in via di sviluppo, che chiedono 1300 miliardi di dollari per affrontare i cambiamenti climatici, e li vogliono composti prevalentemente di fondi pubblici, presi dai budget dei paesi considerati responsabili del riscaldamento globale. Gli Usa di Donald Trump sono ai margini del vertice, viene data per scontata la loro uscita dall'accordo di Parigi, quindi il sottile filo di fiducia tra i blocchi è tutto nelle mani di Hoekstra, volto di un'Unione che alle Cop negozia come un blocco ma internamente non è affatto un blocco compatto di visioni sui cambiamenti climatici.

L'Unione sta provando a imprimere una leadership sul negoziato, ma è una leadership precaria, che non riesce a imporre la sua idea di mondo, basata su un allargamento della platea dei paesi responsabili della crisi e quindi donatori di finanza climatica alle monarchie del Golfo, alla Corea del Sud e soprattutto alla Cina.

L'Unione europea aveva provato a far trapelare a mezzo stampa la sua idea di cifra da mettere sul piatto: 200, massimo 300 miliardi di dollari, lontani dai 1300 chiesti dai paesi in via di sviluppo. «Deve essere uno scherzo», hanno detto all'unisono i capi negoziatori della Bolivia, Diego Pacheco, e dell'Uganda, Adonia Adebeye, che parla a nome dei paesi in via di sviluppo come presidente del G77. 

In mattinata il brasiliano Claudio Angelo, dell'osservatorio climatico del Brasile, a nome della società civile ambientalista, aveva puntualizzato. «Questo tentativo europeo di allargare la base dei contributori serve solo a rallentare il negoziato, ma il tempo per il teatro è finito». Sta reggendo il fronte dei paesi in via di sviluppo nel considerare la Cina ancora una di loro, con tutti i privilegi annessi, nonostante sia la seconda economia e il primo inquinatore mondiale.

L'Unione europea è isolata, senza alleati e sotto pressione. C'è un solo ministro europeo, l'irlandese Eamon Ryan, a guidare il lavoro su uno dei dossier chiave, insieme a colleghi di Egitto, Australia, Costa Rica, Singapore, Nuova Zelanda, Sudafrica, Norvegia, Regno Unito e Brasile. Gli altri grandi paesi europei sono troppo presi dai problemi interni (Germania), col paese ospitante (Francia) o dalla propria intrinseca debolezza sul tema clima.

Italia non pervenuta

È il caso dell'Italia: da quando è ministro Pichetto Fratin siamo ai margini, per motivi di approccio, competenza e anche linguistici, dopo gli anni di protagonismo della stagione Draghi e Cingolani.

Alle Cop incidiamo la prima settimana, perché abbiamo tecnici di lunga esperienza, nonostante le varie marginalizzazioni dell'ultimo anno dentro il ministero dell'ambiente.

La seconda settimana invece è il momento della politica, e lì smettiamo di toccare palla. Non solo per la fragilità della figura di Pichetto Fratin, ma anche perché la transizione italiana non è esattamente un modello mondiale da imitare.

Secondo il Climate Change Performance Index diffuso mercoledì, l'Italia è «in forte ritardo sulle performance climatiche». Siamo al 43esimo posto nel mondo, nella parte bassa della classifica dei paesi dell’Ue. Le emissioni non calano, il piano energia e clima è poco ambizioso e di rinunciare ai combustibili fossili non se ne parla.

Non riuscendo a incidere nel cuore del negoziato, l'Italia lavora meglio nei percorsi più laterali. A Baku nel padiglione italiano si è parlato dell'avanzamento di Pacta, il patto per la decarbonizzazione del trasporto aereo, un'iniziativa promossa da Aeroporti di Roma per affrontare i problemi climatici di uno dei settori in cui è più difficile abbattere le emissioni di Co2.

Gli aeroporti italiani stanno provando a diventare un avamposto di questo difficile pezzo della transizione energetica, investendo sulla distribuzione e lo stoccaggio dei Saf, i Sustainable aviation fuel, l'unica alternativa parzialmente sostenibile agli attuali carburanti per l'aviazione. Aeroporti di Roma è il stato primo operatore in Europa a lanciare un programma di incentivazione a supporto dell’uso di Saf nel 2025, andando oltre i minimi indicati da regolamento ReFuelEU.

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