Nel 1845, il Congresso degli Stati Uniti approvò una legge che uniformava la data del voto quadriennale per la presidenza e la Vicepresidenza. Fino a quel momento, gli Stati erano autorizzati a tenere le elezioni nei 34 giorni precedenti il primo mercoledì di dicembre, ma da allora la data comune a tutti i territori dell’Unione fu fissata al «martedì successivo al primo lunedì di novembre».

Un paese in larga parte rurale non poteva che votare in una stagione lontana da quelle della coltivazione e del raccolto, che avrebbe impedito a molti di abbandonare il lavoro. Un paese molto religioso evitava che il voto avvenisse in una giornata dedicata al Signore o che si corresse il rischio che fosse il primo novembre (di qui il «martedì successivo al primo lunedì»).

Un paese, infine, dove gli spostamenti erano ancora lunghi e lenti, metteva una finestra di due giorni tra il giorno dedicato alla fede e quello in cui ci si sarebbe recati alle urne.

Le contraddizioni americane

La scricchiolante e affaticata democrazia americana è piena di contraddizioni e anacronismi. Come, appunto, il votare di martedì in novembre. In un giorno feriale; con un clima spesso impervio; con l’obbligo di doversi registrare anticipatamente nelle liste elettorali; senza poter attingere a un sistema d’identificazione nazionale che non piace né a destra né a sinistra e – anacronismo tra gli anacronismi – con un pot-pourri di norme, di registrazione e di voto, che variano considerevolmente da Stato a Stato e che vengono poi amministrate a livello di contea.

A lungo, il nostro immaginario delle elezioni statunitensi è stato dominato dalle file interminabili di elettori che sfidavano il gelo per poter esercitare il loro diritto di voto, dall’alta astensione (spesso comparata con la virtuosa partecipazione degli europei) e dallo scarto marcato nelle percentuali di votanti tra bianchi e afroamericani. Oltre che, ovviamente, dai casi leggendari di corruzione dello stesso processo elettorale, peraltro così comune a tante democrazie.

Partecipazione in crescita

Negli ultimi due decenni abbiamo però assistito a un cambiamento radicale, che nel bene e nel male ha stravolto il processo elettorale. Non lo ha reso in alcun modo più omogeneo, e anzi le differenze tra gli Stati si sono fatte ancora più marcate (pure nella semplice definizione di chi gode del diritto di voto: Maine e Vermont, per esempio, lo consentono ai carcerati, laddove molti Stati lo rendono praticamente impossibile anche per chi, condannato, ha scontato la pena).

Sono però state introdotte modalità alternative al voto in presenza il giorno delle elezioni: dal voto per corrispondenza a quello anticipato alla creazione di apposite cassette, simili a quelle postali, dove depositare la scheda elettorale. Gli effetti sono stati plurimi, incluso lo stravolgimento della sacralità di quel rito collettivo che è in fondo sempre il momento del voto.

È cresciuta la partecipazione: dal 52 per cento degli aventi diritto delle presidenziali del 1996 al 66,5 del 2020; da meno del 40 per cento nei midterm degli anni Novanta, al 47-50 per cento delle ultime due tornate del 2018 e del 2022. E si è ridotto il gap storico tra bianchi e non-bianchi, anche grazie alle campagne promosse per educare al voto e aiutare le registrazioni elettorali.

Le teorie cospirative

Il 2020 ha rappresentato per molti aspetti un momento di svolta. Perché la pandemia ha indotto a estendere e rafforzare forme di voto non in presenza; perché vi è stato il tasso di partecipazione più alto dal 1900; e perché si è assistito a un tentativo eversivo da parte del presidente in carica, sconfitto alle urne, volto a impedire il riconoscimento del risultato e la pacifica transizione dei poteri.

Le scorie di quel che è successo sono ancora in circolo. E sono alimentate da una leggenda diffusa, popolare tra un pezzo dell’elettorato repubblicano e continuamente rilanciate da Donald Trump: che quanto avvenuto negli ultimi anni faciliti i brogli o sia addirittura l’esito di un piano deliberato dei democratici per corrompere a proprio vantaggio il processo elettorale.

Leggenda, questa, che si combina con un’altra ancor più cospirativa, ossia che la presunta tolleranza democratica verso l’immigrazione illegale derivi anche dal cinico progetto di far votare questi immigrati. Si tratta di una teoria cospirativa diffusa – negli Usa e non solo – che ha giustificato l’adozione in alcuni Stati di leggi restrittive il diritto di voto i cui effetti verranno testati tra poche settimane, come quella adottata in Georgia che considera il fornire acqua o cibo agli elettori in fila ai seggi reato punibile fino a 12 mesi di carcere.

E si tratta, appunto, di una leggenda smentita da mille studi, dati e analisi. Non è vero, innanzitutto, che non vi sono controlli rigorosi sugli elenchi dei votanti o sulla identità di chi si reca alle urne. In parallelo con le trasformazioni delle modalità di voto che abbiamo descritto, molti Stati hanno compiuto un significativo sforzo in tal senso. Chi vota per la prima volta si deve registrare, fornendo tutta una serie di informazioni e documenti attestanti la propria identità.

La prova dei fatti

Una larga maggioranza di Stati – 36 su 50 – ha introdotto la necessità di presentare un documento identificativo (che, di nuovo, varia da Stato a Stato) per poter votare. Gli elenchi elettorali sono regolarmente verificati e aggiornati. Numerosi Stati, inclusi molti con governi repubblicani, collaborano da più di un decennio con l’organizzazione non-profit Eric (Election Registration Information Center), fondata nel 2012 per garantire l’integrità del processo di voto attraverso la creazione di sofisticati database che incrociano vari parametri per monitorare e rivedere questi elenchi.

Le sanzioni per chi vota o si registra senza averne il diritto possono essere molto severe e la loro capacità deterrente è comprovata (e non si capisce per quale motivo gli immigrati entrati illegalmente nel paese, e nelle cui maglie larghe hanno tutto l’interesse a scomparire il più rapidamente possibile, dovrebbero rischiare condanne ed espulsione per votare). Le informazioni sui votanti sono pubbliche e a disposizione anche dei partiti, che le sottopongono essi stessi a regolare verifica.

I tentativi recenti dei repubblicani e di centri di ricerca conservatori di produrre evidenze non contestabili di queste frodi sistematiche hanno finito invece per smentirle, talora clamorosamente. Spesso citato anche dai sostenitori nostrani delle tesi trumpiane, il famoso database della Heritage Foundation che si propone di documentare casi emblematici e illustrativi di frodi accertate dal 1982 a oggi fornisce un elenco totale di poco più di 1.500 casi (sui miliardi di voti), qualche dozzina – assai poco rappresentativa – per ogni tornata elettorale. I riconteggi del 2020 hanno prodotto revisioni limitate e in larga misura fisiologiche a qualsiasi democrazia.

Quello più controverso – la famosa audit privata commissionata dai repubblicani nella contea di Maricopa, in Arizona – si è concluso con il riconoscimento che non vi era stata alcuna frode e con una lieve correzione del risultato a favore di Biden (360 voti su più di due milioni).

E però piace voler credere il contrario. Per pregiudizio, per ignoranza o, come nel caso di Trump, per spregiudicata convenienza. Con la conseguenza di avallare iniziative legislative finalizzate a limitare il diritto di voto, colpendo come in passato soprattutto minoranze e meno abbienti. E con il rischio di alimentare ancor più la sfiducia nelle regole e nelle pratiche del processo elettorale, iniettando così ulteriore veleno nel corpo già affaticato e sofferente della democrazia americana.

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