Il partito democratico americano, a differenza di quello repubblicano trumpizzato, non è un partito personale. Lo prova il fatto che alla convention democratica che è iniziata a Chicago Joe Biden non sarà il candidato alla presidenza per una seconda volta: fino al 27 giugno, il presidente in carica era il vincitore di ogni primaria che si era tenuta a livello statale e si apprestava ad affrontare nuovamente il rivale sconfitto nel 2020, l’ex presidente Donald Trump, usando toni cupi e minacciosi sulla minaccia per la democrazia americana. Poi c’è stato un dibattito catastrofico e alcune settimane convulse dove dietro le quinte alcune figure apicali dei dem hanno spinto l’inquilino della Casa Bianca a fare un passo indietro senza precedenti. Biden però lo scorso 19 luglio ha scelto di dare subito il sostegno alla sua vice Kamala Harris, che quindi sarà lei a raccogliere la nomination. Per l’attuale presidente invece, c’è solo il discorso di chiusura della prima giornata di convention, prima di andare in vacanza in California per qualche giorno. Un addio da eroe tributato dal suo partito e una popolarità in leggera ripresa per chiudere un’onorata carriera politica certo non nel modo che il diretto interessato aveva previsto

Il presidente ha parlato nella stessa giornata in cui erano previsti gli interventi di altri esponenti politici, tra cui l’ex segretario di Stato e candidata alle presidenziali del 2016 Hillary Clinton, così come altre figure apicali come il senatore della Georgia Raphael Warnock e il governatore del Kentucky Andy Beshear. Si respira un clima diverso rispetto a quel che si pensava a metà luglio, subito dopo l’attentato subito da Donald Trump. Domina l’ottimismo: la nuova Kamala Harris è ben diversa da quella del 2019, quando fece una breve campagna presidenziale fiaccata da confusione e caos organizzativo.

Unità ritrovata

Il tema portante della convention è l’unità ritrovata che però manca su un tema sostanziale: la guerra in Medio Oriente tra Israele e Hamas. Nelle 92 pagine del testo della piattaforma programmatica dem risalta soprattutto il sostegno dato allo stato ebraico dopo il 7 ottobre 2023 e la necessità di un cessate il fuoco a Gaza, insieme alla richiesta di una soluzione di pace che richiederebbe anche l’istituzione di uno stato palestinese. Però questo potrebbe non bastare ai trenta delegati su oltre 3.900 che sono stati eletti sotto la bandiera “uncommitted”, durante la scorsa primavera, che ha visto esplodere le proteste nei campus universitari di tutto il paese. Certamente sono un numero esiguo ma possono far sentire la propria voce di fronte ai media e chiedere davanti alle telecamere di tutto il paese di andare oltre, e di spingere per la cessazione della fornitura di armi allo stato ebraico. Tutto ciò mentre le manifestazioni di protesta per il sostegno dato dall’amministrazione Biden al governo di Benjamin Netanyahu nel corso di questi mesi si terranno come previsto, senza sconti alla nuova candidata, che quindi viene vista dai manifestanti con lo stesso scetticismo dell’attuale inquilino della Casa Bianca. Dall’altra parte, il senatore della Pennsylvania John Fetterman, fino a poco tempo fa idolo di tutte le anime democratiche, ha annunciato che non andrà alla convention. Il motivo? Le sue posizioni pro Israele lo hanno messo ai margini del dibattito.

Riformare la Corte

Un altro punto che potrebbe scontentare i progressisti in mezzo a molte proposte economiche dal taglio populista è la mancata presenza di proposte di riforma della Corte Suprema. C’è anche un’altra curiosità: la piattaforma programmatica è stata approvata in forma di bozza lo scorso 16 luglio, quindi il «secondo mandato di Biden» è citato più volte, come se nulla fosse successo, così come viene molto citato anche l’avversario Donald Trump, il cui ritorno rappresenta un pericolo su molti fronti, ivi compreso quello nazionale. Anche in questa convention il pericolo trumpista verrà evocato e molto spazio verrà dato al “Project 2025”, il radicale piano di trasformazione del governo federale stilato dalla Heritage Foundation e da altre organizzazioni conservatrici che però è stato disconosciuto dallo stesso Trump perché «troppo estremo», anche se molti degli autori hanno servito proprio nell’amministrazione del tycoon dal 2017 al 2021.

Tra i vari punti di questo programma si prevederebbe il licenziamento di decine di impiegati federali da sostituire con lealisti al verbo Maga e la soppressione di alcuni dipartimenti governativi come quello dedicato all’istruzione, che quindi tornerebbe appannaggio degli stati, specie quelli governati dai repubblicani, che avrebbero mano libera sui programmi scolastici e accademici. Al netto di questo però, si teme che un’eventuale repressione delle proteste possa evocare lo spettro di un’altra convention, quella del 1968, dove le manifestazioni contro il sostegno dem alla guerra in Vietnam macchiarono l’immagine del partito poco prima delle elezioni presidenziali di quell’anno, vinte largamente dal repubblicano Richard Nixon.

Secondo altri commentatori, l’entusiasmo invece evoca la convention del 2008 che aveva incoronato proprio il futuro primo presidente afroamericano della Storia, nel cui solco si muoverebbe proprio la stessa Kamala Harris. Che però non sarà un leader come Trump, anzi, se c’è un elemento che emerge dalle manovre convulse delle ultime settimane è la ritrovata forza del partito democratico come organizzazione, che nel 2020 aveva saputo far quadrato attorno a Biden e con la stessa determinazione, quattro anni dopo, lo ha scaricato. In nome di un interesse superiore. Proprio quello che non riesce a fare il partito repubblicano.

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