Un presidente che agisce come candidato per rovesciare il risultato delle elezioni presidenziali del 2020 può sembrare un distinguo capzioso per un capo d’accusa contro Donald Trump. Non lo è però alla luce della sentenza della Corte Suprema Trump v. United States dello scorso luglio: un verdetto discusso varato dalla maggioranza conservatrice del massimo tribunale statunitense, che conferisce un’ampia immunità al presidente nell’esercizio delle sue funzioni.

Anche per questo nelle 165 pagine della mozione depositata dal procuratore speciale Jack Smith e pubblicata dalla giudice federale Tanya Chutkan si specifica che lo sforzo per cambiare i risultati del voto è stato un «progetto criminale privato». In questo modo non sarebbe coperto dall’immunità presidenziale, anche perché per raggiungere lo scopo si è spesso servito di privati cittadini (come Rudy Giuliani) o membri dello staff della campagna elettorale e non facenti parte del corpo dei dipendenti della Casa Bianca.

Non solo: avrebbe saputo perfettamente, come emerso da conversazioni private, che le insinuazioni di frode elettorale da lui affermate pubblicamente erano false e avrebbe anche affermato in presenza del genero Jared Kushner che «non importa aver vinto o perso, ciò che conta è che bisogna combattere fino alla morte». Una persona in particolare avrebbe detto a Trump che non c’erano prove che confermassero le presunte frodi, e si tratta proprio del vicepresidente Mike Pence.

Quest’ultimo sarebbe stato deliberatamente messo nel mirino dallo stesso presidente il 6 gennaio 2021 con un post su Twitter che affermava che il vicepresidente «non aveva avuto coraggio» proprio negli stessi momenti in cui i manifestanti stavano assaltando Capitol Hill nel tentativo di impedire il conteggio ufficiale dei voti dei grandi elettori. E le prove addotte da Smith confermano che il presidente avrebbe postato quelle parole personalmente e non attraverso qualche membro dello staff.

Non solo, afferma la relazione del procuratore, lo avrebbe fatto con lo scopo «di rimanere al potere» e non come veniva detto pubblicamente «per difendere l’integrità del voto». E proprio per questo schema fraudolento si sarebbe affidato a una persona totalmente estranea fino a quel momento come Rudy Giuliani, su consiglio del suo ex stratega Steve Bannon. Una decisione però che sarebbe andata male, dato l’uso maldestro del telefono da parte dell’ex sindaco di New York che avrebbe mandato dei documenti per contestare il voto in Michigan a un numero sbagliato. Si ricordano infatti le conferenze stampa tenute in posti improbabili, come un parcheggio in un centro commerciale di periferia o la tinta che colava dai capelli. Insomma, una serie di eventi che confermano che l’allora presidente agiva fuori dalla legalità e dall’esercizio delle sue funzioni.

Da parte dello staff del tycoon queste nuove accuse vengono respinte al mittente quale estremo tentativo di interferire con il risultato delle elezioni, anche se è praticamente sicuro che il processo non potrà mai iniziare prima del 5 novembre e qualora Trump vinca forse questo procedimento non vedrà mai la luce. Difficile però che l’accusa circostanziata di aver «deliberatamente aizzato la folla di rivoltosi» di Capitol Hill non abbia una qualche influenza a questo punto.

È unanimemente riconosciuto che nell’ottobre 2016 il solo annuncio delle indagini in corso sull’allora candidata dem Hillary Clinton abbia influito in modo negativo sulle sue chance di vittoria e anche stavolta potrebbe essere lo stesso dato che appare che questa volta i moderati che allora avevano scelto il ticket repubblicano questa volta potrebbero semplicemente rimanere a casa e togliere quelle poche migliaia di voti che possono fare la differenza nei sette stati in bilico che decideranno le prossime elezioni.

E per quanto ormai l’abitudine a un Trump costantemente sotto processo si sia affermata, questo diluvio di accuse potrebbe essere sufficiente a fargli perdere la sua ultima battaglia elettorale.

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