Donald Trump ha lanciato il “Manhattan Project” che farà saltare in aria l’inefficiente pubblica amministrazione, e il suo Oppenheimer è naturalmente Elon Musk, che il presidente eletto definisce «grande», «astro nascente» e nella famiglia presidenziale viene appellato soltanto come “zio”, tanto è inserito nelle dinamiche della tribù. Trump ha formalizzato il piano per «smantellare la burocrazia dello stato» di cui parla da qualche mese.

Ha la forma di una nuova struttura chiamata Department of Government Efficiency – la sigla è Doge, evoca la criptovaluta preferita da Musk, che ha guadagnato il 150 per cento dalle elezioni – e si occuperà di eradicare le regolamentazioni inutili, tagliare gli sprechi e ristrutturare le agenzie federali, compiti che Musk garantisce causeranno un terremoto nell’amministrazione federale, «che significa un sacco di gente».

Sulla carta Doge si presenta come una specie di meta-agenzia federale che ha il compito di demolire e rimontare in modo più razionale ed efficiente l’edificio della burocrazia amministrativa, grande idolo polemico del trumpismo: è nei meandri della regolamentazione che prolifera il deep state, potere dominato dall’élite liberal che sfugge al controllo dei cittadini. Si tratta di un potere che costa, secondo i numeri diffusi da Trump, 6,5 miliardi di dollari all’anno. Lavorerà in tandem con l’ufficio budget della Casa Bianca.

Il mito della burocrazia

Ad accompagnare Musk nell’impresa sarà Vivek Ramaswamy, il tarantolato critico dell’economia woke che si è battuto con onore alle primarie repubblicane e poi ha giurato fedeltà a Trump. Il presidente lo definisce «un patriota americano», onorificenza più modesta rispetto a quella riservata a Musk.

Doge è, in sostanza, la risposta alla promessa che nel primo mandato di Trump è finita sotto lo slogan “drain the swamp”, prosciugare la palude, e poi si è trasformata nel proposito di «smantellare lo stato amministrativo», secondo la formula del più inconcludente e cialtrone dei consiglieri trumpiani, Steve Bannon, che a sua volta aveva tratto ispirazione dalla terminologia dall’economista e filosofo di ascendenza trotskista James Burnham.

Il lavoro di Doge si innesta su un’idea che è stata esplicitata da un think tank di area trumpiana poco noto al grande pubblico, l’America First Policy Institute. Il piano è quello di cambiare lo status dei dipendenti pubblici, eliminando le protezioni garantite dal contratto federale per renderli simili a impiegati di un’azienda privata, con a capo il presidente.

L’aspettativa è duplice: «Liberare l’economia», come ha detto Trump, e restituire la burocrazia federale a «WE THE PEOPLE» (il maiuscolo è suo) dopo la cattività nelle mani dell’élite. Tutto questo progetto fa leva sull’idea che lo stato federale sia un buco nero di sprechi, malagestione e ipertrofia cronica, ma Musk e Ramaswamy potrebbero rendersi presto conto che le cose sono più complicate di così.

Che l’esercito dei burocrati sia cresciuto a dismisura nel tempo è infatti un mito: lavorano nello stato federale circa 2,3 milioni di dipendenti, lo stesso numero del 1970, soltanto che muovono un budget cinque volte più alto. Gli esperti di pubblica amministrazione tendono a dire che lo stato ha grande bisogno di assunzioni, non di tagli.

Incompetenza alla Difesa

Se affidare la riforma della burocrazia a Musk era prevedibile, molto più scioccante è stata la scelta del nuovo segretario della Difesa. Sarà Pete Hegseth, anchorman di Fox News la cui massima esperienza militare è stata quella di ufficiale nella Guardia nazionale. Per il resto il 44enne ha soprattutto dichiarato guerra all’ideologia woke, per la difesa dei valori tradizionali e ha criticato l’apertura dei ruoli di combattimento alle donne, decretato già nel 2016. E si è dedicato parecchio anche a sponsorizzare armi e munizioni in notevoli video con telecamera in favore di tatuaggi. Dal punto di vista politico, Hegseth invoca il solito mix di disimpegno delle truppe americane dagli scenari conflittuali unito a grandi investimenti sulla difesa per proiettare forza e spegnere sul nascere ogni speranza ai nemici del paese. Trump dice che Hegseth è «tosto, intelligente ed è un vero adepto dell’America First. Con lui alla guida, i nemici dell’America sono avvertiti, il nostro esercito sarà di nuovo grande e l’America non si arrenderà mai». Non ha saputo dire molto altro sulla sua capacità di gestire il Pentagono, mostro amministrativo con 3 milioni di dipendenti, di cui 1,4 milioni di soldati in servizio, e logiche militari che richiedono esperienza e autorevolezza per essere governate.

Proprio queste caratteristiche hanno reso difficile per Trump trovare qualcuno disposto a prestarsi. Nel primo mandato il presidente ha cambiato cinque segretari, nel secondo è andato direttamente su un lealista senza esperienza, infischiandosene di una (breve) lista in cui figuravano repubblicani con esperienza adeguata al ruolo.

Fra questi spiccavano Mike Rogers, capo della commissione Forze armate della Camera, e il generale Keith Kellog, che già nel primo mandato aveva ricoperto ruoli di responsabilità nella sicurezza nazionale. La scelta di un profilo come quello di Hegseth, inadeguato perfino per gli standard di Trump, potrebbe essere il segnale che il presidente ha deciso di controllare il Pentagono dalla cabina di comando della Casa Bianca.

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