L’Africa è terreno di competizione tra potenze, ma alla fine sono gli stati del continente a scegliere. Non c’è più molto da aspettarsi da Mosca e anche Pechino è ingombrante: la Russia è in rapido declino, mentre l’Occidente deve rifondare le sue relazioni. La Turchia se ne avvantaggia e (forse) anche la Libia
L’avventura russa in Africa è già terminata? In pieno centro di Bangui, capitale della Repubblica del Centrafrica (RCA), lo scorso 3 dicembre sono state erette due singolari statue: una dedicata al leader del Gruppo Wagner, Evgeny Prigožin, e l’altra al suo fondatore Dimitrij Utkin. Onorare chi è stato abbattuto in Russia dopo aver tentato un golpe contro Vladimir Putin, è un gesto simbolico con portata politica: manifesta la rottura (silenziosa ma reale) tra i mercenari della Wagner e Mosca.
Questi ultimi non hanno nessuna intenzione di farsi disciplinare dal Cremlino (né tanto meno di rischiare di essere richiamati nel tritacarne del Donbass) ma preferiscono rimanere autonomi in Africa, forti delle risorse che sono riusciti ad acquisire sul terreno (miniere di vari minerali tra cui l’oro), mantenendo le proprie prerogative di compagnia privata di contractor (leggi: mercenari, in gergo militare PMC, private military company).
La penetrazione russa in Africa è durata poco: anche in Mali la Wagner rimane indipendente da Mosca, che pur aveva promesso l’invio dei combattenti dell’Afrika Corps (una PMC riformata e più controllata). I dirigenti di Bamako preferiscono aver a che fare con dei privati e il negoziato con i russi si è interrotto. In Mali la Wagner può anche far contare il prezzo di sangue pagato sul terreno nel conflitto con i jihadisti.
Dopo la caduta di Damasco
D’altronde nessuno crede più che Mosca sia in grado di difendere i regimi amici: la Siria docet. Se già esistevano problemi nelle trattative tra africani e Mosca, la caduta di Bashar al Assad a Damasco ha tolto ogni dubbio ai leader africani di ogni tipo, democratici, militari o autocratici.
È stata una svolta: all’inizio le armi russe erano le benvenute ma progressivamente si è constatato che non erano sufficienti o che giungevano accompagnate da pesanti condizionamenti di tipo geopolitico-militare. Non ci si libera di un ingombrante partner post-coloniale per accettarne un altro: questo è stato il ragionamento degli africani, precisamente dopo la rottura con i francesi.
In Africa il pensiero (di dirigenti e popolazioni) è il seguente: «Se abbiamo resistito alla prevaricazione e alla predazione degli ex colonialisti europei e occidentali, certo non ci fa paura nessuno né ci sottometteremo ad altri». A dimostrazione di tale assunto, il Niger ha appena preteso dalla compagnia petrolifera cinese Cnpc (China national petroleum corporation) 100 milioni di euro in tasse dovute e non pagate, pena l’espulsione dal paese.
Non sarebbe la prima volta che Pechino si fa allontanare dal continente: è già accaduto in Zambia, in Algeria come altrove. I generali golpisti nigerini fanno sul serio: già l’anno scorso hanno sfilato ai cinesi un intero blocco di esplorazioni petrolifere (Bilma, dove la Cina aveva investito 300 milioni di dollari) per consegnarlo alla compagnia nazionale. Non è bastata una visita ad alto livello da Pechino per risolvere la diatriba.
La polemica su Bilma simboleggia la strategia sovranista della giunta militare di Niamey: “nigerianizzare” le risorse nazionali, sia del settore minerario che energetico. Allo stesso modo sono stai ritirati i permessi di sfruttamento dell’uranio ai canadesi di Goviex o ai francesi di Orano. Ovviamente il Niger dovrà dimostrare di essere capace di gestire tali impianti da solo ma la strada potrebbe anche essere un’altra: utilizzare i servizi di compagnie straniere tecnologicamente avanzate senza dover cedere la proprietà.
Un continente più assertivo
Fino a tempi molto recenti in effetti quando uno stato africano doveva ricorrere ad imprese straniere per esplorare, perforare, estrarre ecc., era indotto a creare società miste in cui la maggioranza proprietaria finiva immancabilmente in mani straniere. Questo non è più accettato dalla maggioranza degli africani, molto più sensibili di un tempo sulla nazionalizzazione delle materia prime.
Così le leadership si adattano. Lo ha compreso l’Italia con il Piano Mattei, basato su un atteggiamento “non predatorio” e accompagnato dal marchio della figura di Enrico Mattei, che ciò intuì fin dall’inizio dell’avventura italiana nel settore energetico globale dopo la guerra, in tempi di decolonizzazione ancora in corso.
L’Africa del 2025 diventa così terreno di competizione tra diverse potenze, grandi e medie, che si contendono il favore di regimi fragili ma decisi a non rinunciare alle proprie prerogative. In passato se la vedevano fra di loro ma ora è l’Africa stessa a decidere. Si tratta di un’Africa più assertiva e con meno complessi d’inferiorità, immersa come tutti nel caos globale ma anche alla ricerca di trarne le migliori opportunità possibili.
La classica narrativa occidentale – vittimistica e riluttante – che vede un’Africa nelle mani di russi e cinesi ha fatto il suo tempo: non è mai stata del tutto vera e lo è ancor meno oggi grazie alla crisi russa. La fuga da Damasco fa il pari con quella occidentale da Kabul, con la notevole differenza che la Siria è molto più strategica. Di conseguenza in Africa nessuno si fida più automaticamente delle promesse delle cosiddette potenze, qualunque ne sia il colore o l’orientamento geopolitico.
Il ruolo della Cina
Come effetto diretto c’è una Cina certamente non felice di essere stata trascinata da Mosca su un piano inclinato alla fine del quale non esiste nessuna vittoria. Possiamo star certi che la situazione si può ribaltare velocemente in ogni momento, in base alla lettura degli interessi nazionali che verrà fatta dagli africani: così come i francesi sono tornati in Centrafrica (rammentiamo: il primo paese africano a far entrare Wagner sul continente e a espellere i francesi), il Burkina Faso ha ora liberato improvvisamente i quattro agenti dei servizi d’oltralpe che aveva arrestato mesi fa nel pieno di una campagna propagandistica anti-Parigi.
Pechino fa sforzi immensi (non solo in denaro) per affermarsi sul continente ma non trova ancora soddisfazione sul versante securitario e militare: gli africani continuano a negar loro basi navali militari, salvo Gibuti (ma lì sono presenti davvero tutti). Prima o poi accadrà ma sarà alle condizione poste dagli africani stessi. Pochi sono stati i capi di stato del continente presenti agli ultimi vertici russi (ce n’erano di più a Roma per il vertice ItaliAfrica di un anno fa), ma soprattutto l’Africa ha dimostrato di non gradire la guerra in Ucraina, non solo a causa della crisi del grano ormai superata.
In verità i subsahariani cercano partner commerciali e produttivi a tutto tondo ma su tale versante Mosca ha poco da offrire (20 miliardi di dollari di interscambio) mentre Pechino appare molto più favorita (tra i 200 e i 300 miliardi) anche se ha il difetto di apparire invadente.
Le mosse turche
L’Occidente è complessivamente il donatore più grande e un tradizionale e forte investitore ma possiede il limite di una relazione logorata dal tempo e tutta da rinnovare. Sembra invece che i turchi si avvantaggino dell’attuale apertura degli spazi, utilizzando il proprio settore privato molto attivo e performante. È questo il terreno su cui l’Italia dovrebbe sfidare tutti mediante la sua rete di Pmi, tornando a contare.
Ovviamente la slowbalisation, ossia il rallentamento degli scambi globali a causa delle grandi guerre e della scelta Usa di contrastare la Cina (a cui si aggiungono le crisi interne africane), non favorisce un’Africa sempre alla ricerca dell’industrializzazione che le permetta il decollo.
Le milizie libiche
Resta il fatto che sul “continente nero” non c’è nulla di certo o acquisito per sempre, a meno di non negoziarlo paritariamente e onestamente. Si tratta di una strada già percorsa dall’America Latina nei confronti dello scomodo ed enorme partner nord americano: gli africani imparano da quell’esperienza e si dimostrano liberi dai condizionamenti della storia e del passato.
Attualmente l’unico quasi-stato che potrebbe trarre profitto della fuga russa da Damasco è la Libia, dove Mosca sta concentrando uomini ed armi prima dislocati altrove sul continente e in Siria. Ma questa è un’altra storia, ben sapendo che non c’è molto da fidarsi delle volubili milizie libiche, sprovviste di interesse nazionale e abituate a vendere e comprare chiunque, basta che il prezzo sia giusto.
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