Hamas non accetterà nessun accordo che non fermi la guerra. Benjamin Netanyahu non accetterà nessun accordo che la fermi. Su questa impasse si è arenata la trattativa tra le parti, fortemente voluta da Stati Uniti e Arabia Saudita da un lato, e da Qatar e Turchia dall’altro. L’ultima proposta americana con un piano in tre fasi sembrava poter aprire uno spiraglio, ma il governo israeliano non intende rinunciare all’obiettivo della completa distruzione di Hamas, né quest’ultima disarmarsi, il che significa proseguire a oltranza.

Lo sforzo negoziale è teso a liberare gli ostaggi – alcuni dei quali salvati dall’esercito – ottenere una tregua e iniziare a pensare al dopo, soprattutto la gestione della Striscia, come chiedeva il ministro Benny Gantz che ora si è dimesso. La decisione del procuratore capo della Corte penale internazionale (Cpi) di procedere con la richiesta di incriminazione contro entrambe le parti è sorta dalla costatazione dell’inefficacia delle pressioni politiche su entrambi gli attori.

Dal momento che sia la leadership di Hamas che il premier israeliano (e i suoi stretti sostenitori) si sono cacciati nel tunnel della logica del “tanto peggio, tanto meglio”, l’incriminazione voleva causare uno choc rimettendo la situazione in movimento.

Non è sembrata utile, anzi ha polarizzato ancor di più. Hamas non si muove, allo scopo di continuare a essere l’unico interlocutore palestinese, forte dello scudo umano di un intero popolo preso in ostaggio. Ma sa bene che nessuno le continuerà a concedere tale ruolo. Netanyahu non si muove per non finire in prigione, ma sa bene che – dopo la guerra – rischia grosso.

Chi dei due cederà per primo? Il colpo d’ala che metta fine a questo vicolo cieco potrebbe venire da Israele. Gli israeliani hanno strumenti legittimi e democratici per cacciare un premier che li ha portati al più grande fallimento della loro storia (il 7 ottobre) e che si serve di loro per mantenersi. La proposta di mozione di sfiducia fatta da Gantz va in questa direzione, anche se gli israeliani hanno sentimenti contrastanti e non sono ancora giunti a una decisione definitiva.

Da una parte sono convinti – come scrive Benny Morris – che il primo ministro abbia ragione almeno su un punto: la necessità di distruggere completamente Hamas. Dall’altra sono sempre più stanchi e dubbiosi sull’utilità e l’efficacia della guerra attuale, come anche del raggiungimento dell’obiettivo. Netanyahu infatti è colui che ha favorito Hamas a Gaza e le ha permesso di finanziarsi abbondantemente tramite il Qatar, come ha recentemente ricordato anche l’ex premier Ehud Barack. Così come se ne è servito in pace per distruggere l’Anp, molti israeliani si chiedono se Netanyahu non se ne serva ora per continuare la guerra all’infinito.

In altre parole, sempre più israeliani si domandano se il primo ministro, assieme ai suoi alleati più estremisti, voglia davvero la distruzione di Hamas, come dice, o stia invece conducendo il paese in una situazione di guerra permanente per rendersi indispensabile. Per quanto assurdo possa sembrare, Netanyahu e Hamas dipendono l’uno dall’altra per la rispettiva sopravvivenza.

Il deserto

È noto che esiste una parte di cittadini di Israele sostenitrice dell’estremismo millenarista e suprematista, ma non è maggioritaria, tutt’altro. Le comunità ebraiche all’estero – salvo quella americana – sono più conformiste, ma non i cittadini israeliani abituati a discutere approfonditamente di ogni decisione. L’idea che in Israele siano tutti per la guerra attuale a Gaza, per le distruzioni e per le uccisioni in massa di civili, è errata. Se mai c’è stata una furia bellica a causa del trauma del 7 ottobre, ora sta scemando.

La narrazione suprematista del governo fa forse breccia all’estero (già da tempo è così), e la propaganda contribuisce ad aumentare tale sindrome, ma in Israele il clima è cambiato, come si capisce leggendo le cronache e i media israeliani. Anche se, come scrive Gad Lerner, «Israele si è frantumato in microsocietà non comunicanti fra loro», aumentano di giorno in giorno le preoccupazioni collettive per un esercito che si sta imbarbarendo a causa di una guerra tanto selvaggia quanto inutile.

Allo stesso tempo cresce l’inquietudine per una situazione economica difficile con un paese intero bloccato. Ma la cosa che impensierisce di più è l’assenza assoluta di prospettive politiche: il governo non dice (perché non sa o sceglie di non sapere) cosa avverrà domani; non ha una linea sul dopoguerra; non sa cosa fare di Gaza; non ha una politica per la Cisgiordania (se non la violenza dei coloni). La rottura progressiva con gli americani pesa sempre di più, così come l’ignorare le proposte mediative degli stati arabi moderati (come l’Arabia Saudita) e della Turchia.

L’immagine di un “Israele in splendida solitudine” e senza amici non attira né convince quasi nessuno, a parte gli estremisti. Nemmeno l’idea di allargare il conflitto al Libano del sud – o addirittura all’Iran – seduce la maggioranza degli israeliani: lo stato di guerra permanente piace solo a Smotrich o Ben Gvir e ai loro seguaci.

Il lento scivolamento verso il conflitto regionale ha svuotato l’alta Galilea sottoposta ai razzi di Hezbollah; attorno a Gaza si è fatto il deserto; nella West Bank regnano odio e violenza; Israele si riempie di milizie irregolari che affiancano Tsahal.

È questo ciò che vuole Netanyahu per il futuro del paese? Se non viene fermato prima, per gli israeliani ci sarà un brusco risveglio: la quasi ventennale rimozione della questione palestinese propalata dalla destra estremista ha portato il paese nel baratro. Ciò che è più da temere è la perdita di senso e di fiducia degli israeliani in sé stessi, tanto da farli dubitare. L’arroganza degli estremisti cela la paura.

Il destino del premier

Dal lato palestinese non si muove niente: Hamas continua a dominare la scena senza rendersi conto di essere già finita. Malgrado il lugubre moto di simpatia e senso di rivincita inizialmente indotto tra gli arabi, così come tra le giovani generazioni del sud globale e dell’occidente, in realtà Hamas ha fallito: non ha scatenato una simile ribellione in Cisgiordania; non è riuscita a mobilitare le masse arabe; non si è imposta come modello e non ha spinto i propri dante causa e alleati alla guerra (mettendoli anzi in imbarazzo).

Le sofferenze e la carneficina imposte alla propria gente ne svelano definitivamente il volto atroce: a cosa è servito così tanto sangue? Il suo consenso sta scemando, e la stessa Russia si è ritratta, così come la Turchia, malgrado alcune dichiarazioni di Erdogan.

Dopo il pogrom del 7 ottobre Hamas non potrà giocare alcun ruolo politico legittimo in rappresentanza dei palestinesi: la comunità internazionale non può accettarla – lo fece con l’Olp – come interlocutore sotto nessuna forma. Nemmeno l’Iran potrà farci niente.

Da un punto di vista politico il 7 ottobre ha mandato in fumo lo sforzo di trasformare e/o camuffare il movimento da terrorista in nazionalista religioso. Ma finché i palestinesi non si daranno una nuova leadership (molto complicato ora), la Palestina non avrà una propria vera rappresentanza, perché l’Anp è screditata e infiltrata da Israele. Piaccia o non piaccia, i portavoce della causa palestinese saranno i paesi arabi moderati (come i sauditi) o al limite la Turchia.

Soprattutto il principe ereditario saudita Mohammed Bin Salman ha la capacità e i mezzi per gestire Gaza: gli Usa (sia Biden che Trump) saranno ben felici di affidargliela. Meglio per Israele sbarazzarsi dell’attuale esecutivo e mettersi alla svelta d’accordo con tali interlocutori per ripartire. L’invito rivolto a Netanyahu di esprimersi per la quarta volta davanti al Congresso degli Stati Uniti lo potrebbe rendere indispensabile. Ma è già chiaro che l’unica preoccupazione del premier è il suo destino personale, e non gli urgenti e gravi problemi da risolvere, come l’incerto futuro della Cisgiordania. Se una cosa il 7 ottobre ha insegnato a Israele è che la rimozione del problema palestinese non paga, ma questa è stata la politica di Netanyahu fino a oggi.

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