Medio Oriente e Ucraina, due guerra da mesi scuotono le nostre coscienze. Il testo della risoluzione votata dal parlamento Ue su Kiev, nonostante le spaccature, segna un passo avanti rispetto all’afonia di un’Europa drammaticamente priva di una visione strategica del proprio ruolo
Due le guerre che da mesi scuotono le nostre coscienze: l’orrendo pogrom di Hamas un anno fa e l’altrettanto orrenda carneficina di Gaza con oltre quarantamila vittime, in buona misura civili, esito della reazione sciagurata del governo Netanyahu. Il tutto scortato in queste ore dal secondo drammatico fronte sul versante nord, tra Israele e il Libano dopo l’uccisione di Hassan Nasrallah.
Quanto all’Ucraina, la guerra scatenata dall’invasione russa prosegue con costi umani e materiali impressionanti. Come ha scritto Massimo Cacciari, a fronte di tutto ciò impressiona l’arrendevolezza delle élite occidentali, e non solo, verso una «inevitabilità della guerra» come destino di questo tempo storico con mediazioni e diplomazie retrocesse a scorie mentre “nemici assoluti” diventano artefici di una “guerra infinita”.
Poco, temo, si riflette sulle conseguenze di un tale clima come lo stesso voto espresso al parlamento di Strasburgo sul sostegno all’Ucraina ha confermato. La questione investe la maggioranza di governo che ha palesato tutte le sue incoerenze. E riguarda le opposizioni alla luce delle divisioni espresse sull’utilizzo delle armi oltre i confini ucraini.
Lascerei perdere i toni esasperati, le accuse di opportunismo o codardia. Temo facciano parte di un linguaggio che risente del clima “bellico” sempre più insofferente verso opinioni e dubbi legittimi. Ma stiamo al merito, l’impressione è che nel discorso pubblico vengano a sommarsi un argomento di principio e la prospettiva di uno sbocco nelle forme di una tregua possibile.
Sconfiggere la Russia
Per il poco che conta ho sostenuto e sostengo tuttora la scelta di concorrere alla resistenza della popolazione e del governo ucraino perché un paese aggredito ha pieno diritto a difendersi.
Il punto è come il principio si debba sposare alla volontà di evitare l’allargarsi della tragedia a nuovi potenziali teatri. L’interrogativo, insomma, è quale debba e possa essere la conclusione del conflitto in atto.
Personalmente non giudico razionale la posizione di chi ritiene si possa sconfiggere la Russia sul terreno. Da non esperto di strategie militari, considero velleitario immaginare la capitolazione di una potenza dotata di seimila testate nucleari.
Di contro, vi è chi giudica inattuabile il ritorno all’Ucraina del 23 febbraio 2022. Se, come ovvio, giudichiamo irricevibile l’ipotesi di un successo militare degli invasori, a rimanere aperta è la sola strada di un “negoziato” capace di bloccare il massacro fissando i termini di un compromesso, anche territoriale, per procedere all’opera immane di ricostruzione di un paese devastato.
Ragionare in questi termini significa abdicare al diritto internazionale con l’aggravante di ignorare la natura di Vladimir Putin convincendolo per altro dell’impotenza di noialtri, occidentali imbelli e ignavi? Rispondo di no e aggiungo che la natura dello zar, l’Europa doveva averla chiara almeno dall’annessione della Crimea, dai massacri in Cecenia, dall’assassinio di Anna Politkovskaja e dalla repressione del dissenso.
Piuttosto, a chi nutre la convinzione che operare per una soluzione negoziale equivalga a una fuga dalla difesa della libertà, mi permetto di chiedere quale sia la strategia alternativa.
Perdere il Dopoguerra
Un solido adagio recita che una guerra si vince quando si è in grado di non perdere il Dopoguerra. Vuol dire che al punto in cui si è giunti, per Kiev l’obiettivo ragionevole può essere conservare parte dei distretti che la Russia si è annessa senza esercitarvi un controllo completo.
Quanto a Mosca pagherebbe il fallimento della “operazione speciale” assieme alla sua subalternità ai dettati di Pechino. Ora, se questo ragionamento ha un senso anche il voto sulla risoluzione del parlamento europeo andrebbe letto con lenti criticamente obiettive.
L’avere introdotto all’articolo 3 del testo un riferimento al dovere di un’iniziativa politica e diplomatica segna un passo avanti rispetto all’afonia di un’Europa drammaticamente priva di una visione strategica del proprio ruolo.
Ciò non toglie l’effetto, anche simbolico, di una spaccatura nel voto rispetto alla posizione assunta dai socialisti europei. In questo senso credo sia giusto che il Pd affronti una riflessione sulla natura di una “pace giusta” anche per esercitare il peso che ci spetta in un partito del socialismo europeo da scuotere.
Infine, nutro rispetto verso la libertà di coscienza dentro il mio partito. In questo caso mi riferisco alla scelta di otto parlamentari di esprimere il loro disaccordo non partecipando alla votazione su quell’articolo 8 della risoluzione che ha visto un voto contrario del resto della delegazione. Credo tuttavia che, se un gruppo autorevole di personalità esprime quel contrasto, sia utile conoscerne le ragioni.
Lo scrivo perché un partito non può fare dell’unità al proprio interno un totem retorico come a volte è accaduto. Deve, insomma, coltivare la dialettica, soprattutto su questioni di rilievo strategico, politico e persino etico, come un elemento di chiarezza prezioso anche verso l’esterno.
Coltivare il dialogo
Questo anche per dare maggiore forza alla richiesta di un cessate il fuoco nella polveriera medio-orientale dove, al contrario, paiono sempre più isolate e sperdute le voci indisponibili ad arrendersi a uno scontro di civiltà senza più limiti.
L’angoscia è nella presa d’atto che da un tempo presupposto di “pace” interrotto da conflitti drammatici si sia entrati in un tempo realistico di “guerra” che riduce istituzioni e strumenti di convivenza a parentesi in una cornice tipica delle economie e società “armate” nel nome di una generica “sicurezza”.
Quindi non giriamoci dall’altra parte rispetto a ciò che è accaduto, ma sfruttiamo l’occasione per coltivare il dialogo che questo tempo ci impone. Senza anatemi, ma con la coscienza di essere dinanzi alla più radicale delle discriminanti che l’Europa del Novecento ha forgiato: la convivenza in un continente per secoli lacerato da odi e nazionalismi. Ridurre la questione alla sola patente di “novelli guerrieri” o “ipocriti pacifisti” temo sia un’offesa a quella storia tragica che nessuno ha il diritto di rimuovere o dimenticare.
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