Dall’inizio della guerra più di un milione di persone è scappato all’estero, per paura dell’arresto o di andare al fronte. Ora l’esodo al contrario, fra povertà e disillusione: una matrioska di anime scomposte e senza un destino in comune
Lungo strada Gogol ad Almaty, nei dintorni della catena di negozi di dischi Meloman, in uno dei bar più hipster della città, Igor sorseggia il terzo caffè della giornata. Quando la guerra contro l’Ucraina è cominciata ed è scappato dalla sua città, Mosca, pensava che il suo “passaggio kazako” sarebbe durato solo qualche mese.
Oggi il compositore – il cognome, per ragioni di sicurezza, non vuole che venga diffuso – si accorge che ha trascorso qui, tra le vetrate colorate e i tavoli di legno laccati del locale, la maggior parte delle sue giornate degli ultimi due anni. Il trentenne raggiunge il ritrovo degli artisti locali ogni mattina per scambiare chiacchiere tristi con altri russi che, come lui, hanno abbandonato la Federazione per paura di essere arrestati o essere arruolati e spediti al fronte.
Il limbo
«Da quando è scoppiata la guerra, viviamo in un limbo», dice. Alle spalle ha una separazione e una lista di tutti i pavimenti e divani su cui ha dormito da quando ha bussato alle porte dei conoscenti che gli rimanevano ad Almaty, dove da bambino veniva in vacanza. La notte in cui ha scelto di dire addio a Mosca è stata quella della sua personale deflagrazione: «Il gruppo in cui suonavo si è sciolto per ragioni politiche. Il batterista antiputiniano è fuggito in Europa e ha smesso di parlare con tutti quelli che rimanevano in Russia, giudicandoli complici del governo».
Intorno al tavolo del bar porta via le tazze una cameriera dalla chioma bruna e gli occhi a mandorla: in questa che era la vecchia capitale del più grande degli ex ’Stan sovietici, i giovani kazaki come lei, a differenza delle generazioni precedenti, «stanno riscoprendo la loro identità e, soprattutto, da quando la guerra contro l’Ucraina è cominciata, non amano esprimersi in russo, anche se rimane una delle lingue ufficiali del Paese. Ad Almaty volevamo ricominciare da zero, ma non ci siamo mai allontanati dal punto di partenza: siamo fuori luogo, geograficamente, spiritualmente, anche economicamente».
Le scritte sui muri
Igor ha provato prima a stabilirsi in Georgia, a Tbilisi, come hanno tentato di fare in migliaia dei suoi coetanei, «ma io una mattina mi sono stancato di leggere “Fuck russians” sui muri e me ne sono andato. Sono stanco dell’odio». Tutti i risparmi che aveva li ha spesi in psicoterapia: «Ero sempre spaesato e depresso per la rabbia che si è impossessata di tutti. Sono russo, ma non posso scontare una colpa collettiva per crimini commessi da altri. Noi autoesiliati siamo vittime minori: le nostre case non sono state bombardate, non siamo morti, ma dal 2022 nemmeno noi abbiamo più vissuto».
Il giovane non ha più la stessa faccia che appare sullo schermo del suo cellulare: una fotografia di quando sorrideva in una delle strade della capitale russa. Lo sguardo indifeso che ora posa su tutto ciò che lo circonda, l’inquietudine che lo corrode lo fanno apparire più giovane di allora. Questa è la sua ultima notte ad Almaty ed è felice: «Ho deciso di tornare a Mosca. Non mi sembra di tornare a casa, ma in una terra straniera».
Il vicolo cieco
Non tutti comprendono la sua scelta, non i suoi genitori, che da tempo abitano in Germania e partecipano a tutte le manifestazioni in cui si sventola la bandiera gialloblù in solidarietà di Kiev. «Non importa», conclude il ragazzo: «Tornare indietro è difficile, ma andare avanti in questo modo è impossibile. Sono in un tupik, in un vicolo cieco, da troppo tempo. Non la sto dando vinta a Putin, ma alla stanchezza».
I numeri
Nel 2022 la Federazione russa ha perso, secondo i calcoli di uno dei principali istituti finanziari russi, l’Alfa Bank, almeno l’1,5 per cento della sua forza lavoro (più di un milione di individui sono fuggiti all’estero). Decine di migliaia di giovani come il musicista sono arrivati ad Almaty in due ondate. La prima risale alla fine di febbraio 2022, quando i carri armati russi hanno varcato il confine ucraino; la seconda è stata registrata nel settembre dello stesso anno, quando è stata dichiarata dal Cremlino quella mobilitazione parziale che hanno cercato di evitare tutti gli uomini in età di leva. Mai così tanti russi erano scappati oltre frontiera dagli anni Novanta, quelli in cui è collassato il gigante comunista.
Il Pil va su
Ora, però, l’esodo sta scorrendo al contrario: è iniziata la migrazione inversa di chi torna in patria.
Non tutti decidono di rientrare per le difficoltà del rinnovo dei documenti, permessi di soggiorno e visti: molti sono attratti anche dall’impennata dei compensi dettati da una grave carenza di personale generata dall’impiego di specialisti al fronte. «I miei amici che non sono andati via hanno visto raddoppiare i loro salari e, intorno, non avevano più competizione», racconta Aleksey, ingegnere. Tra qualche settimana torna in Siberia anche perché ad Almaty «nessuno vuole ascoltare le storie dei profughi russi, nemmeno i russi che vivono in Kazakistan da sempre».
Secondo gli economisti dell’agenzia Bloomberg, questa migrazione inversa ha già contribuito di un terzo all’aumento del 3,6 per cento del Pil russo dell’ultimo anno.
Le valigie nere
In uno dei grattacieli della città che si staglia nel grigio dei casermoni d’epoca sovietica, porte e portoni si aprono inserendo un codice alfanumerico sui citofoni, proprio come in Russia. Anton ha preso in affitto questa stanza per poche settimane: dal 2022 vive tra il Kazakistan e la Turchia. L’unica vera casa che gli rimane è una valigia nera, ormai logora. «Ci sono almeno dieci capi d’accusa per le nuove leggi liberticide varate dalla Duma per cui possono arrestarmi se rimetto piede in Russia. Lo sapeva anche la mia ex fidanzata, che comunque non ha resistito a vivere così ed è tornata a casa», racconta. Nella stessa notte in cui Putin ha dichiarato l’invasione, prevedendo nuove retate e arresti, il ragazzo, che faceva parte del gruppo Navalny, ha cominciato la sua traversata per lasciare il Paese. «In Russia ho scelto di non tornare mai più. È una gabbia, la più estesa del mondo. Ma avere una patria mi mancherà per sempre». Mentre parla, continua a litigare in chat con un parente che lavora nella tv ammiraglia della propaganda del Cremlino: altri suoi familiari rimangono in prigione per aver partecipato alle proteste contro la guerra.
È questa la vita quotidiana della nuova diaspora russa, una matrioska di anime scomposte, senza nemmeno più un destino comune: «Molti intellettuali russi non sono riusciti a trovare “il loro posto” altrove, al contrario dei russi comuni, che sono fuggiti senza altra ambizione se non quella di evitare l’arruolamento».
Le betulle
In una delle località sciistiche nella periferia di Almaty, Petr solleva le valigie dei turisti che arrivano dalla Cina alla Germania per esplorare le foreste qui intorno. «In Russia ora corrono tempi bui» dice il pietroburghese, che non ha nemmeno 20 anni. Ha raggiunto il Kazakistan con tutta la sua famiglia: anche suo padre, come lui, rischiava di finire a combattere in Donbas. Sa che molti dei suoi coetanei sono diventati “carne in scatola” sulle barricate e nemmeno i loro corpi torneranno a casa. La pace ora dice di averla trovata qui, tra le seggiovie verso i picchi dei monti Transili Alatau: «Vedi, anche qui ci sono le betulle, come in Russia».
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