Come mostra il rapporto Ispi, la rottura sentimentale tra Europa e Africa sta avvenendo quasi senza averla decisa. La geopolitica delle emozioni sta cambiando il quadro delle relazioni internazionali. Il vittimismo nazionalista crea ad arte fake stories che coprono gli interessi delle élite
La ricerca di una nuova relazione con l’Africa è nelle intenzioni del governo, come dimostra il decreto sul piano Mattei e come il vertice del 28-29 gennaio si propone di lanciare. L’Italia si incammina su un terreno complesso e la rottura sentimentale tra Europa e Africa rende il compito arduo.
Nei recenti colpi di stato africani abbiamo visto bruciare bandiere francesi e alzare quelle russe. Sono scene del Mali o del Burkina Faso e infine del Niger (anche se non in Gabon e nemmeno in Guinea): la gente istintivamente critica la Francia anche quando non è di fronte a un intervento diretto di Parigi. L’Africa si rivolta contro l’occidente definitivamente? Se lo chiede un rapporto Ispi appena pubblicato.
Lo si è visto nei voti alle Nazioni unite dove il continente si è spaccato sulla condanna alla Russia. Più ancora si è notato nel caso della guerra a Gaza: l’Africa intera si schiera coi palestinesi quasi spontaneamente.
Vengono al pettine i nodi delle relazioni post-indipendenza guidate in Africa occidentale dalla Francia con il consenso dell’Europa. I sentimenti di vicinanza con l’antica metropoli sono progressivamente venuti meno in maniera impercettibile, quasi senza che se ne capisse la ragione.
La rottura “sentimentale”
Non basta puntare il dito sul neo-colonialismo (quell’intreccio di interessi economico-politici con le ex metropoli proseguito dopo le indipendenze): esiste da molto tempo ma era controbilanciato da un diffuso sentimento di prossimità culturale e linguistica che ora sembra improvvisamente svanito. La chiamano una “rottura sentimentale” che si allarga all’Europa e a tutto l’occidente.
Si parla di rivolta del sud globale. La caduta del sistema statico della guerra fredda ha rappresentato, com’è noto, la fine delle ideologie contrapposte. Al loro posto c’è stato l'avvento delle identità e/o delle emozioni, di per sé molto volubili. Secondo il politologo francese Dominique Moïsi, le relazioni tra gli stati e i popoli sono ormai rette da una “geopolitica delle emozioni”, le più significative tra le quali sono la speranza, l’umiliazione (ed il rancore ad essa connesso) e la paura (del declino).
Per le nazioni e le classi politiche le emozioni non si fermano al sentimento popolare ma si trasformano in cultura e programmi partitici. La paura, ad esempio, diventa cultura del disprezzo per l’altro di altra religione, altra etnia o comunque diverso, un atteggiamento antico come la storia dell’uomo ma che in tempi di post-globalizzazione ha avuto una reviviscenza impressionante attraverso le formazioni populiste.
Il mondo nuovo
In tale “nuovo mondo” tutti si sentono al medesimo tempo nativi ma anche estranei e di conseguenza più o meno spaesati. È ciò che stanno vivendo i giovani maliani o burkinabé.
Ogni punto di riferimento scompare, terremotato dai cambiamenti geopolitici in atto: ecco perché cittadini spaesati si ribellano con furore. Lo spaesamento stravolge la vita quotidiana: il vecchio mondo del quale si erano imparati valori e gerarchie, è sparito.
Tutto è in grande e generale rimescolamento, come le frontiere del Sahel che sembrano scomparse nella sabbia. Non si sa più dove finiscano i confini degli stati africani: gli stessi jihadisti li contestano (così come fece l’Isis in Iraq e Siria). Il medesimo processo di spaesamento avviene in Europa ma in maniera confortata e attutita grazie alla sedimentazione della ricchezza e al welfare.
Così Andrea Riccardi descrive tale inclinazione globale: «Davanti a un mondo così complesso siamo tutti un po’ incompetenti… Ci manca la capacità di assimilare tanta informazione. A volte siamo presi da un senso di impotenza di fronte a situazioni lontane e poco comprensibili... Oggi la complessità disorienta e confonde».
La trappola complottista
Uno degli effetti è rappresentato dalla trappola complottista: credere a congiure e dietrismi senza fine. Un esempio di tale dinamica è la Russia di Vladimir Putin che riscrive la propria storia per confermarne una visione vittimista e ricostruita ad arte, allo scopo di giustificare la guerra.
Il vittimismo si diffonde e ritroviamo tali atteggiamenti anche in occidente, risultato della geopolitica delle emozioni adattata alle relazioni internazionali. Il mondo attuale si ritrova in un gorgo di eccitazioni e passioni che spesso hanno poco fondamento e si trasformano in una realtà parallela che la maggioranza finisce per accettare.
La democrazia viene sfidata da tali narrazioni alternative che sembrano spiegare le vicende attuali in maniera più semplice e più chiara. Così il presunto complotto (definito storico) contro Russia/Urss, diviene giustificazione per le decisioni del Cremlino. O le manipolazioni post-coloniali di Parigi divengono la scusante per i golpe militari.
Si ingenerano cortocircuiti del pensiero: anche considerando il suo passato coloniale l’Europa può essere considerata colpevole di ogni nefandezza che avviene in Africa? Ovviamente non è così ma ciò basta per scatenare una polemica che risuona in Europa stessa. Si rammenti il dibattito all’epoca di Nicolas Sarkozy sui «benefici della colonizzazione» (iscritta in una legge francese poi emendata) e sull’Africa «non ancora entrata nella storia» (discorso di Dakar).
È ovvio che certe élite africane – peraltro legate a doppio filo con gli interessi delle ex metropoli coloniali – hanno buon gioco a giustificarsi gettando sugli ex padroni le proprie responsabilità.
La medesima cosa avviene negli Usa con la polemica su Black lives matter. Lo schiavismo e la segregazione sono responsabili di ogni difficoltà della comunità afroamericana, del suo tasso di criminalità (in specie tra gli uomini) e così via?
La questione razziale in America è cosa seria e spiega tanto dei danni arrecati al tessuto sociale e alla convivenza, ma non rappresenta l’unica lente per comprendere quella parte di società.
Lo stesso cortocircuito avviene con l’immigrazione in Europa: usato come clava elettorale, l’allarme per i flussi migratori diviene quello per la “sostituzione etnica”.
Si tratta di ricostruzioni del tutto emozionali che non tengono conto dei rapporti economici diseguali tra Europa e Africa o degli effetti dei cambiamenti climatici ad esempio.
Damnatio memoriae
La geopolitica delle emozioni si sta trasformando nella cultura della cancellazione (cancel culture): ciò che non piace della storia passata, ciò di cui c’è da vergognarsi (rileggendola con lo sguardo attuale) va cancellato ed eliminato dalla memoria. Si tratta di una forma moderna di damnatio memoriae, già nota ai latini e ancor prima agli antichi egizi.
Ma la storia non si cancella anche se si può dimenticare. Le rotture emotive a cui assistiamo sono anti-storiche e devono molto al contesto “sentimentale” che allontana da un’analisi lucida dei fatti del passato o li rilegge coi criteri del presente. Se non tutto si può spiegare con l’economia – come pensavano i marxisti e oggi credono ancora gli iperliberisti – nemmeno tutto può essere spiegato in termini culturali o addirittura passionali. Il nazionalismo (soprattutto di radice romantica) deve molto a tali forme di “sentimentalismo” che divengono immediatamente aggressive a causa del sostrato vittimistico.
È ciò che stanno vivendo le relazioni euro-africane oggi: un piano inclinato in cui le emozioni celano (e guidano) interessi nascosti o agende segrete (incentrate sul potere e sul controllo delle risorse). Dialogo e convivenza sono messi in crisi e la frattura avviene quasi senza averla decisa.
Il vuoto
Alla fine resta solo il vuoto, con il rischio di riempirlo di avventure cruente, come sanno i jihadisti sempre pronti ad offrire una loro risposta. Soltanto un’analisi lucida delle reciproche responsabilità e la ricerca di un nuovo quadro di mutuo rispetto e vantaggio, potrà permettere di ricostruire con l’Africa quella fiducia di cui oggi i giovani (africani ma anche italiani ed europei) hanno tanto bisogno.
Un mondo senza fiducia diventa invivibile. la relazione tra Italia e Africa potrebbe diventare un modello, viste anche le buone esperienze fatte, come la “pace di Roma” che fece finire la guerra in Mozambico con la mediazione di Sant’Egidio, e tante altre. È quello che ci si augura possa sbocciare dal vertice di fine gennaio.
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