La giornalista italiana si trova in isolamento con la luce accesa per 24 ore. Sono modi estremi attuati per fare pressione e incutere paura. È la tortura bianca di cui ha parlato Narges Mohammadi
«Come un monumento alla paura sulle montagne di Teheran». Un monito ai dissidenti da parte del regime iraniano. È così che Shady M. Alizadeh, avvocata e attivista del movimento “Donna, vita, libertà” descrive il carcere di Evin, dove la giornalista Cecilia Sala si trova in isolamento da 15 giorni. Se in un primo momento le condizioni di detenzione di Sala sembravano rassicuranti, nella telefonata del 1° gennaio alla famiglia ha raccontato di essere detenuta in un regime di carcere duro: si trova in una cella vuota, senza un letto.
Solo il pavimento per dormire e due coperte, una da appoggiare a terra e una per coprirsi. Il pacco che era stato consegnato dall’ambasciata italiana con alcuni generi di conforto – che secondo la Farnesina era stato recapitato – non è stato ricevuto, ha fatto sapere Sala nella telefonata, di cui ha raccontato ll Post.
Tra i generi destinati alla giornalista, una mascherina per coprire gli occhi, un tentativo di alleviare uno degli strumenti di tortura psicologica: la luce accesa a tutte le ore, per disorientare e far perdere ogni riferimento al giorno o alla notte. «Il carcere di Evin è uno dei più terribili e rientra nel meccanismo che il regime utilizza contro i dissidenti», spiega Alizadeh.
Resistere a Evin
Un carcere che, spesso, viene chiamato università per il numero di studenti, intellettuali, giornalisti incarcerati, soprattutto nella sezione dei dissidenti politici.
«La tortura non è necessariamente fisica, spesso è psicologica. Togliere il letto e gli occhiali, lasciare la luce sempre accesa, è il modo che ha il regime per spezzare l’integrità dell’essere umano», continua l’avvocata, precisando che «la scelta dell’isolamento della giornalista è estrema e utilizzata per esercitare pressione e infliggere paura».
La premio Nobel per la pace 2023, Narges Mohammadi, uscita temporaneamente da quello stesso carcere per motivi sanitari, ha scritto un libro sulla “tortura bianca” (Più ci rinchiudono, più diventiamo forti, Mondadori), che mira a sottrarre alla persona ogni stimolo sensoriale per lunghi periodi.
Di norma una persona arrestata per motivi politici viene detenuta in isolamento – spiega Parisa Nazari, attivista di Amnesty International e del movimento “Donna, vita e libertà” – per poi essere trasferito, dopo aver ricevuto pressioni, in cella. «Nella sezione 209, le detenute non si fermano nella loro coraggiosa e gioiosa resistenza sfidando il regime oppressivo degli ayatollah nonostante la violazione brutale e sistematica dei diritti umani, come denuncia Amnesty International».
La diaspora
«Il mondo dell’attivismo della diaspora chiede che si faccia di tutto per liberare Cecilia Sala», precisa Nazari, «senza però accontentare il regime», che chiede la liberazione di Mohammad Abedini Najafabadi, arrestato dalle autorità italiane, su cui pende una richiesta degli Usa di estradizione.
«Altrimenti, avrà sempre un’arma di ricatto», aggiunge. Diversi intellettuali iraniani in esilio hanno mostrato solidarietà e vicinanza a Sala. A partire da Shirin Ebadi, avvocata, attivista e premio Nobel per la pace, che ha ricordato di altri cittadini stranieri detenuti nelle carceri iraniane come ostaggi politici. O Taghi Rahmani, scrittore e attivista in esilio, marito di Mohammadi, che ha sottolineato, in un’intervista alla Stampa, come sia evidente la volontà di ricatto. Per Alizadeh «c’è un movimento di stanchezza contro il regime».
«Sui media iraniani all’estero si è parlato molto dell’arresto di Sala», dice Nazari, mentre nel paese sotto regime non si può dire lo stesso. E aggiunge: «Nello stesso momento, le giornaliste iraniane Niloufar Hamedi ed Elaheh Mohammadi sono state costrette a scrivere una lettera di pentimento per aver svolto il proprio lavoro e aver dato la notizia della morte di Mahsa Amini», l’attivista curdo-iraniana arrestata dalla polizia morale per non aver indossato correttamente il velo, e poi morta in detenzione. Si presume abbia subito un pestaggio.
Alizadeh racconta di un sentimento di malessere generale in Iran, dato dalla crisi economica. «Un paese in cui la libertà di stampa e di pensiero sono un privilegio». E in cui, conclude, «non è solo la libertà di una giornalista a esser messa in discussione ma di una donna in un paese che perseguita le donne libere».
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