La trattativa, mediata da Stati Uniti, Qatar ed Egitto per scongiurare di una guerra regionale. Biden tenta l’ultima strada per arrestare la reazione iraniana e portare a casa gli ostaggi
Lo scorso 31 luglio, dopo l’omicidio del capo politico di Hamas Ismail Haniyeh a Teheran, il premier qatarino Mohammed Al Thani aveva commentato: «Come può avere successo una mediazione se una delle due parti assassina il negoziatore del campo opposto?».
Oggi Al Thani farà gli onori di casa a quello che la stampa mediorientale ha definito il summit «dell’ultima chance» per un accordo sulla liberazione degli ostaggi israeliani e sul cessate il fuoco (anche se potrebbe benissimo non essere l’ultimo). Dovrebbero partecipare il direttore della Cia Bill Burns, il direttore del Mossad David Barnea, la super-spia egiziana Abbas Kamel.
Non è ancora chiaro che tipo di delegazione sia prevista per rappresentare Hamas, che comunque non partecipa mai a colloqui diretti con gli israeliani. E se l’Iran intenda a sua volta inviare emissari a Doha che, senza prendere parte al summit in veste ufficiale, possano influenzare indirettamente i negoziati.
Un filo di speranza
C’è forse un elemento che rende un po’ meno flebili le speranze di un’intesa rispetto alle tornate negoziali precedenti, segnate dall’ostruzionismo a malapena mascherato di Netanyahu. Cioè l’intersecarsi delle trattative con l’attesa snervante di una risposta di Iran e Hezbollah agli omicidi mirati israeliani di fine luglio, che hanno preso di mira il peso massimo di Hezbollah Fuad Shukr a Beirut e Haniyeh a Teheran.
Il presidente americano Biden ha auspicato che, in caso di accordo, l’Iran faccia un passo indietro e venga sventata una possibile nuova escalation regionale. Ed è possibile pretenda maggiore serietà da parte del primo ministro israeliano in cambio del dispiegamento di forze americane in Medio Oriente degli ultimi giorni e della pressione diplomatica parallela per indurre gli ayatollah a rinunciare o moderare la rappresaglia. La frustrazione di Biden nei confronti di Bibi era d’altronde trapelata in maniera plateale all’inizio del mese, quando i media hanno riportato un suo avvertimento a Bibi riguardo le trattative: «Smettila di prendermi per il culo».
Fonti vicine ai dirigenti politici israeliani descrivono questo round di negoziati come fortemente voluti dalla Casa Bianca, che avrebbe minacciato serie ripercussioni per chi tentasse di minarne le premesse. E confermano la sensazione che, nelle stanze dei bottoni israeliane, vengano considerati più credibili rispetto alle tornate precedenti. Dopo la liberazione di oltre cento ostaggi a fine novembre, le trattative si sono susseguite per quasi nove mesi senza portare risultati.
Nabil 'Amr, un ex ministro palestinese, ha scritto sul quotidiano saudita Asharq al-Awsat che «le probabilità di successo di un accordo sono più alte che mai». E ancora: «Se i colloqui andranno a buon fine, c'è la possibilità che alla regione vengano risparmiate le peggiori conseguenze di un grande scontro tra l'Iran e l'asse della resistenza da una parte, e Israele e gli Stati Uniti dall'altra».
Da parte sua, la stampa israeliana continua ad occuparsi più della possibile rappresaglia iraniana che del summit su Gaza. Ma su Yediot Achronot, il giornale a pagamento più diffuso in Israele, viene citata una fonte degli apparati di sicurezza che conosce le tensioni fra Netanyahu e i capi militari sui negoziati. «Anche se gli alti ufficiali la pensano diversamente dal primo ministro sui colloqui, io credo che la posizione di Netanyahu derivi da valutazioni di merito, non politiche», dice la fonte. «Sia sul corridoio di Filadelfia che sul valico di Rafah e sul ritorno dei residenti nel nord di Gaza».
Le divisioni israeliane
“Corridoio di Filadelfia” è l’espressione con cui Israele definisce lo snodo strategico rappresentato dal confine fra la striscia e l’Egitto. I tunnel fra Gaza e il Sinai egiziano sono stati per anni la via principale del commercio e del contrabbando nella striscia, rifornendola di tutto, da lavatrici e materiali necessari per l’edilizia proibiti da Israele, fino alle armi.
Nella guerra del 2023-2024 le forze israeliane hanno ripreso il valico di Rafah con l’intenzione di creare una zona cuscinetto lungo il confine. Netanyahu non vuole cedere su questo punto, ma Hamas rifiuta la presenza militare israeliana nell’area.
Lo stesso vale per il cosiddetto corridoio di Netzarim, che separa il nord e il sud della striscia: Netanyahu vorrebbe mantenere dei check-point che monitorino i ritorni di civili verso la striscia settentrionale, bloccando il contrabbando di armi. Hamas invece chiede il ritiro delle truppe e il ritorno degli sfollati come condizioni per un cessate il fuoco.
Sul piano interno Netanyahu è stretto fra due fuochi. Da una parte gli estremisti che tengono in piedi il suo governo, Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich, considerano qualsiasi accordo una disfatta e lo minacciano di far venire meno la maggioranza in parlamento qualora dia il via libera a un’intesa.
Dall’altra Bibi è già da tempo ai ferri corti con le famiglie degli ostaggi, che lo accusano di non avere a cuore la sorte dei connazionali rapiti. Una situazione che non fa certo bene alla sua immagine di leader.
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