La linea unitaria che Donald Trump diceva di aver scelto dopo l’attentato subito in Pennsylvania è durata solo qualche ora: alla convention repubblicana, un’ora prima del previsto, è arrivato l’annuncio che il tycoon ha scelto il senatore dell’Ohio J.D. Vance come candidato vicepresidente.

Nel post scritto su Truth Social l’ex presidente ha annunciato che la sua decisione era caduta proprio sul trentanovenne autore del bestseller “Hillbilly Elegy”. Vance, classe 1984, è il più giovane candidato alla vicepresidenza sin da quando il generale Dwight Eisenhower scelse il promettente senatore della California Richard Nixon, noto per il suo anticomunismo viscerale.

Anche Vance in questi anni si è fatto notare come crociato delle idee ipertrumpiste, dall’abbandono dell’Ucraina allo scetticismo nei confronti dei vaccini, passando per l’ostilità alla Cina e all’immigrazione clandestina, arrivando a teorizzare un’America “post-liberale” che possa risolvere i grandi problemi che l’attanagliano.

Nel 2016 Vance era solo lo scrittore di un bestseller incentrato sulla sua storia personale, lavorava in un fondo d’investimento ed era uno dei critici più accesi dell’allora candidato Trump: lo paragonava “all’eroina”, una droga politica che faceva “star meglio” senza risolvere i problemi.

Il caso editoriale

In un messaggio privato il tycoon veniva paragonato prima a «un cinico stronzo come Nixon» poi alla versione americana di Hitler. Un giudizio molto pesante, considerato che in quel periodo poi Hillbilly Elegy non era un libro qualunque: è stato forse il maggiore caso editoriale del 2016 nella saggistica, anche se si tratta di un memoir romanzato.

Descrive una storia familiare, a partire dai nonni, che emigrano dai monti Appalachi in West Virginia fino in Ohio. Il piccolo James (il primo nome di J.D.) vive con la madre che divorzia quando lui è ancora un neonato. Vive la sua infanzia difficile con tre patrigni diversi, in un contesto di povertà e degrado sociale.

Il libro racconta di come questa comunità di bianchi poveri, un tempo legatissima al partito democratico (nelle case del West Virginia era comune trovare una foto del presidente Franklin Delano Roosevelt, autore del New Deal che diede un po’ di prosperità economica alle comunità di minatori di quelle zone), sia passata a sostenere Donald Trump come presidente e come leader che comprende le loro esigenze sociali contro quelle élite indifferenti ostili nei loro confronti.

Una bussola

All’epoca questa analisi venne largamente condivisa non soltanto dal mondo conservatore, ma anche dai media mainstream progressisti come il New York Times o il Washington Post. Tra le poche voci dissonanti si registrava quella di William Easterly, docente di economia alla New York University, che criticò su Bloomberg la visione fissista di Vance che vedeva la comunità dei bianchi poveri appalachiani come un tutt’uno indivisibile e quasi immutabile.

Anche per questo Vance, nel primo biennio di Trump alla Casa Bianca, fungeva da bussola per intellettuali disorientati dalla sorprendente vittoria del tycoon, venendo spesso ospitato alla Cnn e su riviste prestigiose come The Atlantic.

La metamorfosi

Poi lentamente, inizia il cambiamento. Quel brillante laureato a Yale che lavorava per il miliardario Peter Thiel fino a dicembre 2016, decide di tornare in Ohio. Ha l’intenzione di fondare una società no-profit per combattere la dipendenza da oppioidi, uno dei temi ricorrenti del suo libro.

Il nome scelto, Our Ohio Renewal, alla fine si è rivelato beffardo. Nell’agosto 2021 un’inchiesta di Business Insider ha rivelato quanto poco l’organizzazione abbia fatto per gli scopi che si era prefissato: un fundraising quasi inesistente, che ha raccolto la cifra di 50mila euro all’anno e un’azione trascurabile. Interpellato dalla testata, il portavoce dell’Ohio Opioid Education Alliance, la più grande associazione statale che riunisce gli organismi che lottano contro le dipendenze, ha dichiarato di non aver mai sentito parlare di Our Ohio Renewal. Nel frattempo, gli obiettivi e le idee di Vance erano cambiati.

A cominciare dalla sua conversione al cattolicesimo, avvenuta nell’agosto 2019 in una cerimonia a Cincinnati e annunciata con un intervista alla rivista “The American Conservative”, uno dei principali magazine sostenitori del nuovo repubblicanesimo di matrice trumpista e promotore di ogni guerra culturale.

Nel febbraio 2021 la metamorfosi di Vance comincia a pieno regime: il suo ex datore di lavoro Peter Thiel dona dieci milioni di dollari a un Super Pac, Our Ohio Values, per lanciare la corsa di Vance per il seggio dell’uscente Rob Portman, un repubblicano moderato che ha deciso di non ricandidarsi nel 2022.

Dopo aver lanciato un comitato esplorativo a maggio di quell’anno, nel luglio annuncia la candidatura alle primarie. Per le quali fa fatica: nei sondaggi è quasi sempre dietro ad altri avversari più blasonati, l’ex tesoriere dell’Ohio Josh Mandel e il banchiere Mike Gibbons. Dimenticate le sue idee su Trump, sulle quali ha fatto pubblica ammenda: adesso per lui Trump è stato un grande presidente e ha definito “sporchi” gli immigrati illegali, dopo che aveva condannato anni prima “il linguaggio d’odio”.

Posizioni distruttive

Vance è andato oltre però le posizioni standard dei repubblicani nell’era di Trump, allineandosi alle posizioni distruttive di Steve Bannon, affermando che, qualora Trump vincesse le elezioni del 2024, «dovrebbe rimpiazzare ogni singolo burocrate federale con la nostra gente». Un linguaggio autoritario che però ben si sposa con la sua posizione filorussa sulla guerra in Ucraina.

Poco prima che l’invasione iniziasse, il 22 febbraio 2022, aveva detto proprio a Bannon che a lui «non interessava nulla dell’Ucraina» e che questa avrebbe distratto gli elettori dai nostri «veri problemi». Anche se qualche giorno dopo ha detto che l’invasione è «oggettivamente una tragedia» ma prima bisognava pensare agli americani e alla sicurezza del confine con il Messico, peraltro lontano migliaia di chilometri dall’Ohio.

A novembre poi, nonostante il buon risultato dei dem, Vance trionfa in Ohio e indossa i panni del paladino del ritorno di Trump alla Casa Bianca. Diventa il grande oppositore del vecchio leader repubblicano Mitch McConnell, emblema della “palude” washingtoniana, e sorprendentemente fa amicizia con alcuni leader della sinistra dem come la senatrice del Massachusetts Elizabeth Warren.

Si mostra vicino alle istanze dei lavoratori del settore automobilistico, ma anziché incolpare i leader delle grande industrie automobilistiche, per lui i colpevoli sono i “fanatici ambientalisti” e la transizione verde. Viene attirato nell’orbita del tycoon, che lo stima per le sue doti intellettuali e per il fatto che è uno dei pochi che non teme di affrontare avversarsi strenui in tv ostili come la Cnn e Msn Cnbc.

Diventa quasi di famiglia diventando amico personale del figlio di Donald Trump Junior. L’ultimo ostacolo, per lui, è la barba, non amata dal capo del mondo Maga. Ma in fin dei conti Trump è stato pragmatico. Ha scelto lui perché di sicuro non ha remore costituzionali nell’attuare l’agenda del suo secondo mandato. Anzi, ha affermato che nell’improbabile ipotesi che la Corte Suprema desse torto al presidente su qualcosa, l’ordine andrebbe ignorato, spezzando l’equilibrio dei poteri per andare verso un nuovo ordine post-liberale, molto simile all’Ungheria di Viktor Orban, anche lui molto stimato da Trump.

Un segno che il prossimo quadriennio può portare una discontinuità decisamente più significativa del primo mandato del tycoon, con una successione già garantita con una figura che, per citare sempre Steve Bannon, potrebbe essere il San Paolo della nuova ideologia post-liberale, diffondendola non solo in America ma anche nel resto del mondo.

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