Una parte importante del lavoro della campagna di Kamala Harris è la continuazione di quanto fatto da quella di Joe Biden nel 2020 e che fino a qualche mese fa sembrava così difficile: conquistare pezzi di elettorato repubblicano delusi o disgustati dal trumpismo.

E nel 2020 questa strada era stata percorsa con successo, ad esempio, dopo anni di appartenenza alla coalizione repubblicana, con i professionisti bianchi e le donne appartenenti al ceto medio-alto che vivevano nelle aree suburbane, preoccupate dalla svolta radicalmente antiabortista dei trumpiani.

Con Joe Biden alla testa del ticket nel 2024 però questo non sembrava fattibile: troppo alta l’impopolarità per un presidente accusato di aver contribuito in modo determinante all’erosione dei salari e del reddito attraverso un’alta inflazione e l’attuazione di politiche di grande spesa pubblica, che piacevano ai democratici ma poco a chi in passato ha sostenuto i tagli delle tasse di Reagan e di George W. Bush.

Poi c’è stato lo switch di candidatura con la ex numero due ed ecco che questa via è tornata praticabile. Lo si è visto alla convention, con il sindaco di Mesa, Arizona, che invita a votare per Kamala Harris «andando oltre il proprio partito» e con l’ex addetta stampa della Casa Bianca Stephanie Grisham che ha dichiarato dal palco, forte della sua conoscenza di prima mano, che Trump «non ha morale», anche se la conquista di esponenti del partito avverso è una tattica elettorale non particolarmente innovativa: l’hanno usata nel recente passato, tra gli altri, John McCain nel 2008 con l’endorsement del senatore dem Joe Lieberman e Barack Obama nel 2012 con Colin Powell, già segretario di Stato durante la presidenza di George W. Bush.

Una novità è invece la lettera pubblicata lunedì sui giornali del gruppo Usa Today di oltre duecento ex membri degli staff di altri candidati repubblicani come i già citati John McCain, George W. Bush e Mitt Romney.

In questa missiva gli alti funzionari, pur ricordando «la loro distanza ideologica» dalle idee del ticket composto dalla vicepresidente Kamala Harris e dal governatore del Minnesota Tim Walz ricordano che però l’alternativa è semplicemente «insostenibile».

Tra i nomi ci sono anche l’ex capo di gabinetto di George Bush Senior Jean Becker, in servizio negli anni del suo pensionamento, David Niremberg, al comando del reparto finanziario della campagna di Mitt Romney nel 2012, e infine David Garman, sottosegretario all’energia sotto George W. Bush.

Nell’intervento si ricorda anche la «sottomissione ai dittatori» del ticket repubblicano e «la coltellata alle spalle» che darebbero agli alleati. Infine, si ricorda come un gruppo di ex repubblicani è stato decisivo nel 2020 in stati come la Georgia e l’Arizona e si invitano i repubblicani a compiere la stessa «impresa» per Kamala Harris.

La domanda che però ci si pone è: quanti voti sposta questa missiva? Molto pochi. Difficile che certi funzionari noti solo agli addetti ai lavori possano convincere gli elettori comuni che hanno altri pensieri oltre alla politica. Però c’è comunque una certa importanza a livello di riallineamento politico: è il segnale che il partito repubblicano sta perdendo piano piano un patrimonio di competenze di governo acquisito in decenni di esperienza sia alla Casa Bianca che dal lato del Congresso che a questo punto passa, in pianta quasi stabile, alle fila dei democratici che di questo passo stanno ricostruendo al loro interno una corrente moderata che negli ultimi anni era troppo diluita dalle politiche sempre più marcatamente progressiste.

Da parte trumpiana invece la conquista di pezzi di coalizione avversa passa da un lato insolito: quello della sinistra. Non è un mistero che fino a qualche tempo fa, al netto delle idee complottare sui vaccini, il profilo di Robert Kennedy Junior fosse sovrapponibile con quello di un tradizionale ambientalista di sinistra.

Mentre l’ex deputata delle Hawaii Tulsi Gabbard, una delle più accese sostenitrici di Bernie Sanders nel 2016, nella giornata di lunedì ha annunciato il suo sostegno al tycoon e nelle ore successive è emerso che sia lei che il rampollo della famiglia Kennedy dovrebbero fare parte del team di transizione in caso di vittoria repubblicana alle presidenziali.

A unire certi profili simili è l’ostilità alla tradizionale postura statunitense nel mondo che invece viene esaltata dalla lettera degli storici ex collaboratori di figure repubblicane di spicco, che secondo Gabbard e Kennedy con Trump verrebbe smontata in favore di una nuova linea “pacifista” e “realista” che favorirebbe la pacifica convivenza anche con la Russia di Putin con la quale, va da sé, si troverebbe un accordo in breve tempo.

La questione da porsi anche qui però è la stessa: quanti dei sostenitori di Kennedy Junior e Gabbard li seguiranno in questo endorsement? Difficile dirlo, ma difficilmente saranno decisivi in ottica novembre, anche se raccontano molto della trasformazione che stanno attraversando i due maggiori partiti americani.

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